Storia di Mohammed Abdullah

RACCOGLIEVA POMODORI NELLE CAMPAGNE DEL SALENTO. È MORTO PER IL CALDO E PER LE CONDIZIONI DI LAVORO. LE INDAGINI SULLA SUA MORTE HANNO SVELATO LA FILIERA CHE COINVOLGE I GRANDI MARCHI.

Si pubblica uno dei racconti tratti dal libro La Spoon River dei braccianti di Antonello Mangano, Meltemi Editore, 2023, si ringraziano l'Autore e la Casa Editrice per l'autorizzazione alla pubblicazione

RACCOGLIEVA POMODORI NELLE CAMPAGNE DEL SALENTO. È MORTO PER IL CALDO E PER LE CONDIZIONI DI LAVORO. LE INDAGINI SULLA SUA MORTE HANNO SVELATO LA FILIERA CHE COINVOLGE I GRANDI MARCHI.

Nato in Sudan nel 1968

Morto a Nardò (Lecce) il 20 luglio 2015

Aveva 47 anni. Lavorava ogni giorno per costruire una vita migliore per sua figlia

“Facciamo così. Io sono bianco e vado con Berlusconi, tu segui Gullit”. Mohamed spalanca gli occhi, è appena arrivato in un casolare diroccato, guarda Idriss, non capisce.

“Gullit, Berlusconi? Siamo forse a Milano?”. Si guarda intorno e vede un edificio che cade a pezzi, mattoni forati a vista e pavimentazione di cemento. Più in là, la campagna piatta del Salento, campi infiniti di pomodoro e angurie, vigneti di Negroamaro, un sole che asciuga l’anima.

“Sì”, ride Idriss, “ogni capo nero ha un soprannome. Berlusconi è tunisino, è il capo degli arabi, si fa chiamare così perché ha tante macchine e offre lavoro. Gullit è quello con le treccine, è il capo dei ghanesi, è il capo dei neri. Poi c’è Giuseppe l’algerino, ma è una vipera, quello è un cattivo, un bastardo proprio”.

“Ah”, risponde Mohamed, “adesso ho capito. Ma io ho già un lavoro, sono con Sale, è lui che mi ha detto di venire qui. Mi ha chiamato quando ero a Caltanissetta, inizio domani, sono arrivato oggi. A proposito, dove dormirò?”.

Idriss Ben Said fa da guida, entra al piano terra del rudere, “Qui c’era una falegnameria, ecco, qui ci sono altri sudanesi, scegli pure dove posare le tue cose, occhio a non lasciare soldi qui”.

“Dormiamo sul pavimento?”, chiede Mohamed perplesso.

Idriss ride e mostra i denti mancanti, gli occhi malati, le rughe scavate nella pelle del volto, i baffi già bianchi.

“Sì, sul pavimento, bisogna adattarsi, ti consiglio di metterti al piano di sopra, vicino al balcone, c’è più aria. Come comodino, puoi usare una cassetta della frutta vuota, basta metterla alla rovescia. E se devi pisciare, puoi andare sotto gli ulivi. Ma non preoccuparti, dormirai benissimo. Io sto facendo le angurie, dieci chili ogni anguria, a volte pure venti, le porto dal campo al camion, quando mi butto su questo cartone mi addormento all’istante”.

“Certo”, ammette Mohamed. Poi spiega: “Adesso chiamo mia moglie Marian, non posso dire che vivo in un posto come questo, senz’acqua, in mezzo ai sacchi neri della spazzatura, a pochi passi da una carcassa di pecora, le dirò che il posto è bello, pieno di ulivi come in Sicilia, oggi è domenica e sono arrivato, domani è lunedì e inizio a lavorare”.

***

“Pronto, Tatti? Tutto a posto, la squadra è pronta. Domani mattina li vado a prendere alla falegnameria, sono 28.

Hai una richiesta di mille casse al giorno? Nessun problema. Ti faccio fare bella figura. Sì, nessun problema, possiamo fare anche pomodori per il mercato. Ci vediamo alle 5 ai semafori, dove ci incontriamo sempre, eh. Appena arriviamo sul campo raccolgo i documenti, così in caso di controlli possiamo scambiarli. Sì, hanno tutti i documenti in regola… Io non sono come Giuseppe l’algerino. Lui prende quelli senza documenti, poi dice: se non vi sta bene denunciatemi. Lo sa che non possono denunciarlo perché non hanno i documenti. Io ti porto gente con tutto in regola, paesani miei, rifugiati del Sudan.

Che dici, è meglio fare una squadra che lavora di sera? Ma ti dico che hanno i documenti in regola. Possono lavorare di giorno. Tranquillo, tu non rischi niente.

Ricorda, questa è la parola di Sale, la parola di Sale conta ancora qualcosa. Sì, non preoccuparti, a fine giornata conto i cassoni. Ah, una cosa importante. Ho dato a ognuno cinquanta euro per la spesa, non un centesimo di più. Il resto a fine raccolta. Ho chiarito subito la cosa. Sennò succede come l’anno scorso, che se ne sono andati prima della fine del raccolto, i somali hanno litigato coi sudanesi e sono andati via. E quelli che sono rimasti, si lamentavano dell’erba alta, e non hanno finito la raccolta nemmeno loro.

Poi ricordati la questione di Pasquale, è un amico di Corrado, dobbiamo segnare le giornate, deve arrivare a 102.

E ricorda di cacciare Hadem, il caposquadra, uno lungo e secco con la Mercedes nera, crea problemi, Tatti scusami, ma tu lo stai mettendo sempre in mezzo questo scemo, non è capace di fare niente, solo creare problemi, mi mette i bastoni fra le ruote. Ha solo dieci cristiani che non sono buoni!”

***

Mohamed Abdullah prende le sue cose dal trolley, si guarda intorno, un connazionale sistema un sacco a pelo, quindi si siede a gambe incrociate e studia i quiz per conseguire la patente. In un angolo, altri perfezionano l’italiano guardando i programmi di Rete 4 su un vecchio televisore alimentato da un generatore a nafta. “Senza conoscere la lingua, siamo fregati!”, spiega uno.

Mohamed chiude la cerniera della valigia, esce nel cortile e si avvicina a una baracca. Porge due monete e riceve un piatto di cous cous, patate, salsa di pomodoro, qualche pezzo di carne di pecora. Gli altri in fila fanno lo stesso, pagano e ritirano il piatto in silenzio.

Poi, all’ombra di un ulivo ritrova ancora Idriss, sta vicino a due ghanesi, Ayiva e Coffie. Mangiano insieme e chiacchierano.

“Ho appena finito di raccogliere patate a Cassibile, vicino a Siracusa”, racconta Mohamed. “Gli altri mi dicevano che lavoravo come un cavallo, che non mi stancavo mai. Starò qui fino a settembre, poi tornerò a Caltanissetta da mia moglie e da mia figlia Aisha. In inverno andrò in Calabria per raccogliere le arance. Poi, se avremo i soldi sufficienti, partiremo tutti per la Francia. Sono da nove anni in Italia, sono stanco, ancora vivo in posti come questo”.

“Hai ragione”, esordisce Coffie. “Ho pagato 200 euro per dormire qui durante la raccolta, anche voi? Mi sembra incredibile, qui non c’è nulla”.

“Preparati a pagare sempre”, dice Idriss sconsolato. “Domani sul campo ti daranno una bottiglia di acqua, due euro, ma è acqua di fontana. Ma dobbiamo comprarla per forza, se no c’è acqua di cisterna nel campo, ma è acqua avvelenata dai pesticidi. Poi ci danno un panino con carne di pecora, due euro. E il passaggio sul furgone del capo nero, cinque euro”.

“Io vado in bicicletta”, dice Ayiva, “quei soldi mi servono per la mia famiglia, per le mie bambine, non posso regalare soldi a Gullit”.

“Il primo giorno va bene, ma il secondo? Sono molti chilometri sotto il sole”, risponde Idriss.

“Ma dobbiamo ribellarci”, si arrabbia Coffie, “io vengo da Vicenza, qui non è Italia, lavoravo ai laminati, lì c’è il sindacato, abbiamo fatto anche uno sciopero, lì avevo il contratto e le vacanze pagate. Qui non è Italia. Questo inverno ho fatto la raccolta delle arance in Calabria, a Sibari, ‘Ti sparo, scimmia’, mi ha risposto il proprietario con la pistola verso di me, non mi ha dato i soldi, ho lavorato due mesi gratis”.

“Ma come possiamo ribellarci?”, risponde Ayiva. “Io ho bisogno di lavorare, ho tre figli in Ghana, devo restituire i soldi ai miei cugini, mi hanno pagato il viaggio. Se sanno che ci siamo ribellati, poi nessuno ci chiamerà più”.

“Sì, qui è uno schifo”, conferma Idriss, “io vengo da Santa Croce, Sicilia, lì a confronto è il paradiso, guadagno cinquanta euro al giorno e abito vicino alle serre, ho il contratto e la casa”.

“E allora perché sei qui?”, chiede incuriosito Mohamed.

“Perché i soldi non bastano mai”, spiega Idriss. “Con la stagione delle angurie si possono fare duemila euro, significa stare bene tutto l’inverno. Io sono furbo. Arrivo a duemila euro e vado via. Se prima non mi spezzo la schiena. Andiamo a prendere il tè, conclude. Ve lo offro io”.

***

“Come ti chiami? Sei fortunato! Appena arrivato e già lavori”.

È l’alba, Mohamed si pulisce gli occhi, come se potesse togliere il sonno con le mani. Sale sul furgone, uno scatolone bianco scassato, sono stipati in venti, il sedile è una tavola di legno, ma c’è qualcuno che ha voglia di parlare.

“Sono Mohamed, sono arrivato ieri”, risponde al sudanese che gli sta di fronte.

“Bravo, io sono Omar Mustapha, fai bene a lavorare con noi sudanesi, mio fratello ha combattuto in Darfur contro i demoni a cavallo, la guerra è una merda, dopo è stato anche peggio, vivevamo di aiuti e carità internazionale, sono arrivate le Nazioni Unite ad Alfasher, la mia città, hanno preso case in affitto, è aumentato tutto, tutto costava di più, ho dovuto lasciare Alfasher. Mio fratello combatteva gli arabi che si sentono superiori. Non andare con Giuseppe l’algerino, quello è un arabo che prova piacere a trattare come schiavi noi neri, prova piacere a leccare il culo al padrone bianco. Finge di essere musulmano, ma lo hanno visto bere birra durante il ramadan. Il ramadan è finito da qualche giorno, è stata davvero dura, ti è andata bene. Il nostro è un vero ramadan, non quello degli arabi.

Per noi raccoglitori di angurie e pomodori”, conclude, “è stata dura fare il ramadan d’estate. La sera, per evitare il male alla pancia, prendevamo qualche cucchiaio di cous cous. Stessa cosa dopo tre ore. In questo modo, nessuno dormiva bene. Allora andavamo sotto la tenda con la parabola dove si prende la tv egiziana, ascoltavamo le preghiere, le preghiere ci aiutavano a passare la notte, pregando, con i tappeti rivolti verso la Mecca, con la voce del muezzin nell’aria”.

***

Mohamed ha ancora nelle orecchie la voce di Omar Mustapha, una mitraglietta, “Poi dicono che i sudanesi sono silenziosi”. Ha ancora sonno, poi un capogiro, “Mi passerà”, si dice. “Copriti la testa”, dice Omar Mustapha, “oggi farà molto caldo”. “Hai una bustina di Oki?”, chiede Mohamed.

A metà mattina sente che sta per svenire, si ferma, gira tutto, si sposta di qualche metro. “Muoviti”, dice Sale, “non puoi fermarti, se stai male prendiamo un altro”. “No, tutto ok”, risponde Mohamed, “riprendo a lavorare”.

“Bene, Marian, va tutto bene, sto lavorando”, dice Mohamed al telefono. “Ti chiamo quando finisco”. Prima di chiudere guarda l’ora, sono le 12, “Mi gira la testa”, pensa.

Ancora due ore e crolla a terra, sotto il sole, con una temperatura che sfiora i 40 gradi. Il caporale chiede: “Che state facendo? Tornate al lavoro”. Ma sono tutti intorno a Mohamed, trascinato sotto un albero.

“Forza, riprendete a lavorare”, dice, “forse oggi non volete guadagnare soldi? Si riprenderà, quello lì, un po’ di riposo e si alza, vedrete. Se non si alza, allora è troppo vecchio per questo lavoro”.

Mohamed apre gli occhi, avverte un senso di benessere, si sente leggero, riposato. Gli passano davanti l’ultimo saluto a Marian, un bacio sulla fronte alla figlia, “Ciao Aisha, torno presto”. Poi lo spiazzo dell’autostazione a Caltanissetta, l’ingresso dallo svincolo di Catania, la traversata sullo Stretto di Messina, il percorso fino in Puglia. E il paese in Sudan, una distesa di terra rossa punteggiata da cubi allineati in senso ortogonale.

Sono ormai le 16,49, un bracciante si stanca di aspettare e chiama il 118. Quando l’ambulanza arriva trova un uomo morto.

***

“Lo Stato italiano ci prende in giro”, si arrabbia Idriss, “guarda là in fondo, quelle tende, sono dei forni, non ci va nessuno, ogni giorno stanno sotto il sole, quando di sera qualcuno entra si muore di caldo, ci prendono in giro, ci trattano come bestie, meglio stare nel palazzo diroccato”.

“E poi le tende non si possono chiudere”, conferma Coffie, “io sono uscito ieri al mattino per andare a lavorare e la sera ho trovato un senegalese che tirava fuori la sua roba dal trolley”.

“Fino a ieri portavano l’acqua con le taniche”, si lamenta ancora Idriss, “il Comune credo, oggi non più, ci hanno dato un po’ di bottiglie di plastica di acqua minerale, domani non si sa”.

Idriss è arrabbiato, “Vieni come me” gli dice Coffie, “prendiamo un tè alla menta”. “Ho pagato cinquemila euro per venire in Italia e ora mi trovo in questo schifo”, racconta Idriss.

“Ero a Sfax, la mia città, anche lì prendevo un tè alla menta. Lì al bar mi dicono: ‘Vuoi andare in Italia?’, ‘Magari’, rispondo io, ‘ma non voglio salire sulla barca, ho paura del mare. Salirai sul traghetto, dormirai tutta la notte e al mattino ti sveglierai in Italia fresco e riposato’.

‘Com’è possibile?’, chiedo. ‘È semplice’, mi rispondono. ‘Chiedi di Bachir’.

Bachir è un trafficante, è il migliore, conosce tutti non solo a Sfax ma soprattutto in Italia, funzionari del consolato, imprenditori agricoli del Sud della Sicilia, burocrati allo “Sportello Unico per l’immigrazione”. Tutto quello che serve per organizzare viaggi in piena legalità. ‘Io salvo vite di tunisini’, dice Bachir. ‘Non faccio niente di male. Ma voglio essere pagato’.

I cinquemila euro comprendono tre mesi di affitto appena arrivato in Italia, tutti i documenti e un contratto di lavoro presso la ditta individuale di Maria Catena, una signora di Santa Croce, sud della Sicilia, con uno spiccato senso degli affari.

È incredibile”, racconta Idriss, “non è ancora buio e salgo sul grande traghetto, lascio la Goulette, il porto di Tunisi, arrivo al mattino, mi affaccio e mi sembra lo stesso porto. ‘Ma non siamo ancora partiti?’ chiedo arrabbiato al marinaio.

‘Minchia, svegliati, siamo arrivati!’ risponde lui. ‘Questa Palermo è.’

Allora incontro altri tunisini, mi spiegano dove si prende il pullman, scendo a Catania, cambio per Ragusa. Qui mi vengono a prendere, Ben Mohamed ha la macchina e mi porta a Santa Croce.

‘Maria Catena è la mia fidanzata’, spiega Ben Mohamed mentre corre sulla strada che taglia in due l’immensa distesa di serre in plastica. ‘È lei che ti ha fatto il contratto, sei proprio fortunato, pensa quanti tunisini muoiono per arrivare a Lampedusa. E anche se arrivano vivi, li rinchiudono nei centri, tu invece arrivi e il giorno dopo inizi a lavorare’.

Sembrava un sogno”, continua a raccontare Idriss, “e infatti come in tutti i sogni a un certo punto mi sono svegliato. Non avrei lavorato da Maria Catena, ma in tutta la provincia, ovunque mi portava Ben Mohamed. Lavoravo gratis perché con le ore nelle serre pagavo il debito. E il debito lo pagavo pure vivendo in una baracca, trecento euro al mese, un cubo con la porta sfondata, senza cesso, il pavimento di terra e il tetto di plastica.

La casetta era vicino alle serre e dovevo pure fare la guardia, ‘Se senti i cani abbaiare chiama subito, mi diceva Maria Catena’.

‘Questo è l’inferno, voglio andare via’, dicevo a Ben Mohamed. ‘Da qua non te ne vai finché non paghi il debito’, rispondeva lui, ‘non provare a scappare ché ti trovo pure all’inferno e ti ammazzo. E se per caso non ti trovo io ti troverà la polizia, perché i soldi che mi fai avere servono per le pratiche alla Questura, finché non paghi il debito sei un clandestino e ti fanno tornare in Tunisia. E anche dopo, sempre del contratto hai bisogno, perché senza contratto torni clandestino e ti rispediscono a Sfax. Questa è la legge dell’Italia, non è la legge di Ben Mohamed!’

‘Allora almeno fammi pagare il debito subito’, lo imploravo. ‘Un modo ci sarebbe’, rispondeva lui carezzandosi il mento. ‘Ti piacciono le angurie?’”

***

“Oggi è domenica, non c’è lavoro. Sai cosa facciamo?”, chiede Idriss. “Oggi diventiamo turisti italiani”.

“Mi piace quest’idea”, risponde Coffie.

Prendono due biciclette scassate, corrono sulla strada piatta che porta a Nardò, li aspettano chiese barocche di pietra gialla e turisti in bermuda.

“Prendiamo un caffè”, propone Idriss, si avvicinano ai tavolini di un bar nella piazza della Cattedrale, un grande ombrellone rosso e sedie in ferro battuto.

“Andate via, non ci serve niente”, dice un cameriere sgarbato.

Idriss e Coffie si guardano imbarazzati, hanno messo entrambi la camicia, ma portano infradito ai piedi e jeans con qualche chiazza di fango.

“Veramente vogliamo prendere un caffè”, protesta il tunisino, “abbiamo i soldi”. Il cameriere di malavoglia li accompagna presso un tavolino isolato, li guarda di sbieco, porta i caffè e controlla bene i soldi.

I due a bocca aperta osservano i turisti, famigliole litigiose piene di valigie e rabbia repressa, lei vuole iscriversi a un corso di taranta, lui urla: “Sono qui per riposare, non per stressarmi”.

E poi coppie del Nord Europa, zaini enormi e pelle arrossata, asiatici imperturbabili, gruppi di ragazze scollate che ridono dopo essersi dette qualcosa nell’orecchio.

“Questo è un altro mondo”, commenta Coffie, “ragazze belle e padri col portafoglio pieno, quando avrò i soldi farò venire la mia famiglia qui e faremo i turisti, saremo senza pensieri”.

***

Marian scende dal pullman, in braccio tiene la figlia di tre anni, ha gli occhi arrossati e l’aria smarrita.

Deve recuperare i pochi averi di Mohamed, testimoniare dai carabinieri, affrontare la burocrazia, ringraziare il sindaco e la Regione Puglia per i soldi offerti per le spese del funerale, seguire il viaggio della salma fino in Sicilia, provare a seppellirla in un cimitero musulmano in Sudan, piangere il marito e inventare un futuro per la bambina e l’altro figlio sedicenne, Giambattista.

Arrivata all’ex falegnameria incontra Omar Mustapha, “Ecco”, le dice, “tuo marito dormiva qui”. Marian è sconvolta, qui non può dormire neanche una bestia, quello è un materasso sporco appoggiato su un balcone, circondato da spazzatura. “Se avessi saputo, non lo avrei lasciato venire”, confessa a Omar Mustapha. “Lui invece mi diceva che il posto era bello, pieno di ulivi, lo diceva per farmi stare tranquilla. Mi difendeva in qualunque situazione, voleva sempre proteggermi. Era sempre affettuoso, anche con il figlio che non era suo, manteneva anche lui pure dopo che ha lasciato la scuola, non voleva che lavorasse, è troppo piccolo, diceva. Per mantenerci faceva qualunque lavoro, pensava a tutto lui”.

“Ha fatto bene a nasconderti dove viveva”, dice Omar Mustapha. “Questo non è un posto da donne. Quella è la sua valigia, lì c’è tutto quello che aveva”.

Marian apre il trolley piangendo, prende in mano le chiavi di casa, piega con cura le sue magliette.

“Cosa ne sarà di noi?”, chiede. “Noi non abbiamo nulla, né soldi né parenti in Italia. Senza Mohamed, cosa ne sarà di noi?”.

***

Il primo ha una trentina d’anni, si chiama Ruben, corpulento, sudato, i bottoni della camicia bianca soffrono e stanno per esplodere.

“Prendo un tramezzino al tonno, tu cosa vuoi collega?”.

Il secondo è più magro, si chiama Vito, resiste con la giacca nonostante il caldo. “Sei a dieta, collega? Prendo un caffè e un pasticciotto all’amarena”.

Il Tribunale di Lecce è un incastro senza senso di cemento armato e vetro, ingentilito da una riproduzione di Falcone e Borsellino sulla facciata principale.

Parlano del processo seguito alla morte di Mohamed.

“Insomma, cinquant’anni, debole di cuore, una vita a faticare, mi sembra una morte naturale”, sostiene Ruben. La perizia recita: “Aritmia maligna in soggetto affetto da polmonite a impronta emorragica”. In parole povere, infarto.

“Certo”, risponde Vito, “ma dimentichi un particolare: un uomo in quelle condizioni deve lavorare in un ambiente idoneo, non sotto il sole di luglio, senz’acqua, senza cappelli, guanti o scarpe adeguate. Senza il controllo di un medico del lavoro. Questo è omicidio colposo”.

“Va bene, ma tu non li conosci i nostri imprenditori di campagna? Qui siamo nella giungla. Prova a dirgli: dispositivi di protezione individuale. Ti sputano in faccia. E poi ti dicono: e a me chi mi protegge? Qui ognuno si protegge da sé”.

“Ok”, dice Vito, “ma questo Tatti è indifendibile, è pure recidivo”.

“Guarda che formalmente la ditta è della moglie”.

“Ma dai, è una copertura, su questo neanche ti rispondo”.

“Va bene”, riprende Rubens. “Comunque questo è un processo già morto. Intanto, a chi vuoi che gliene fotta di un sudanese di cinquant’anni quando qua ci sono in ballo i milioni di euro dell’economia del pomodoro?

In secondo luogo, è pieno di vizi formali. Per esempio: hai saputo dell’avvocato Perrone? Lo hanno nominato d’ufficio in vista dell’autopsia. Peccato che non esercita più la professione. Ovviamente si è guardato bene dal comunicarlo. Però ha dato la colpa a un funzionario dell’Ordine degli avvocati, che non avrebbe aggiornato gli archivi. Ora sono sotto indagine tutti e due. Comunque la giri, questo processo si perderà in mille rivoli”.

“Che dici? Non è pertinente? Va bene. Allora andiamo nel merito. Certo, Tatti è recidivo. Era già stato coinvolto nell’operazione Sabr del 2012, cioè gli arresti dopo lo sciopero degli africani di Nardò, era finito agli arresti, certo. Ora viene contestata anche l’omissione di soccorso, ma come poteva soccorrere se non era presente?

E poi qui, scusami, qui stanno venendo fuori nomi grossi, nomi pesanti. Ma come? Non ne sai niente? E che avvocato sei?”.

***

“Io c’ero”, dice all’improvviso Idriss. Insieme a Coffie adesso si trova in un palazzo occupato, una vecchia fabbrica dismessa tutta lamiere cadenti, amianto e calcinacci.

La raccolta sta per finire. Mohamed è morto. Idriss si lascia andare ai ricordi mentre con Coffie cucina un cous cous con zucchine, salsa di pomodoro e cipolle.

“Io c’ero alla Masseria Boncuri, me lo ricordo quel ragazzo, Yvan. Aveva ragione lui, eppure gli sono andato contro.

Sentivo i caporali tutti in circolo che dicevano: ‘Quegli scemi stanno facendo un sacco di casino al campo, dicono che i pomodori sono guasti, sono tutti paesani, stanno tutti insieme al dormitorio, come pappagalli, parlano insieme’.

Ci avevano chiesto di raccogliere i pomodori “con delicatezza”, perché servivano per le insalate, non dovevamo rovinarli, un lavoro molto più faticoso, ma allo stesso prezzo.

Eravamo di lingue diverse, arabo, inglese, francese, dialetti africani, ma nonostante le differenze abbiamo cominciato a parlare tra noi e i caporali sono entrati in allarme.

‘Vogliono aumento, che cazzo… Io gli ho spiegato ieri, ho detto: ‘Ragazzi, qua aumento lo potete scordare, anche un centesimo in più. Perché questa è una ditta seria che fa trecento camion, inutile di dire che non siete d’accordo. Se volete lavorare sennò chiamo altri cristiani’. E poi tra loro dicevano: ‘Questi sono inquinati, dobbiamo prendere gente nuova’.

È vero, eravamo inquinati, infatti abbiamo fatto sciopero. Io volevo il contratto, così finalmente potevo avere il permesso di soggiorno senza pagarlo. E volevo pure l’aumento della cassetta, perché così potevo avere finalmente più soldi in tasca.

Ci siamo riuniti nel grande spiazzo. Yvan ha preso un vecchio megafono: ‘Stasera un gruppo di persone mi ha minacciato di morte. A tutte le forze invisibili che sono nascoste dietro, io dico che non ho paura di loro. Tutto ciò che c’è di bello al mondo si è ottenuto manifestando’.

Poi ci siamo divisi. ‘Adesso lui dorme nello stanzone, noi qui nelle tende, a terra, su vecchi materassi’, dicevo agli altri. ‘Lo sciopero è una scusa per stare con gli italiani, in mezzo a loro, mentre noi rimaniamo qui fuori’. Ci siamo divisi e abbiamo sbagliato. Ho sbagliato. E ora questo Tatti che hanno arrestato per la morte di Mohamed è lo stesso dello sciopero della masseria”.

***

“Buonasera a tutti i nostri telespettatori, benvenuti al nostro Salotto Tv, stasera parleremo della piaga del caporalato, una piaga che non si riesce a debellare. Ci occuperemo dunque dei nuovi schiavi, della schiavitù moderna che però ci assicura i pomodori che ogni giorno finiscono nei nostri piatti. Noi consumatori, cosa possiamo fare? Come non essere complici delle mafie che gestiscono questi poveretti?

Chiediamo a uno dei maggiori produttori italiani, Bartolo Contini, proprietario della Pelati Contini. Ecco, Contini, buonasera, grazie di aver accettato il nostro invito. Lei sicuramente conosce il caso di Mohamed, lo sfortunato bracciante morto di recente nelle campagne in Puglia. Dalle indagini è emerso che i pomodori raccolti in quel frangente finivano ai maggiori marchi italiani, anche al suo, praticamente quelli che troviamo ogni giorno nei supermercati. Ecco, com’è possibile?”.

Contini è in chiaro imbarazzo, “Conosco il caso, certo, però bisogna dire che questa indagine dei carabinieri di Lecce non c’entra nulla, si sono messi a ricostruire la filiera, comunque senza trovare reati, forse era una loro curiosità, adesso sanno che dalla ditta di Tatti i pomodori andavano ad Andria, e da lì a Oliveto Citra, provincia di Salerno, quindi a Montechiarugolo, vicino Parma; altri arrivano a Sant’Antonio Abate e Angri, in Campania; e il resto da Mesagne, Brindisi, fino a San Lazzaro di Savena, Bologna. Sì, avete capito bene, fino alla mia azienda.

Una mappatura completa, complimenti, peccato che è completamente inutile per dare giustizia al povero Mohamed, utile invece per gettare fango su noi che lavoriamo, perché anche noi siamo vittime, vittime della Grande Distribuzione Organizzata che ci impone prezzi bassi, alla fine anche noi siamo costretti a sfruttare.

Però non ci stiamo, non accettiamo il fango, quindi ci siamo costituiti parte civile, perché siamo stati danneggiati, ma la richiesta non è stata ammessa, i giudici hanno ritenuto che il danno non ci riguardasse, ma che ne sanno, vorrei fargli vedere i miei conti, vorrei parlargli di quante notti ho passato senza dormire, questa è proprio una brutta storia, ma è pure una storia del Meridione, spiace dirlo, in Emilia queste cose non succedono, perché abbiamo meccanizzato tutto, sono le macchine a fare la raccolta, non prendiamo sudanesi, anche in Puglia si arriverà a questo pure lì, saranno sempre meno i sudanesi, ci vuole tempo ma a questo si arriverà, perciò comprate pure i nostri pomodori”.

“Mi scusi se la interrompo, Contini, non è mia abitudine interrompere, io sono un semplice cronista, scrivo su un sito del Salento, mi pagano meno di un raccoglitore di pomodori, però una cosa la voglio dire: è una palla quella della meccanizzazione, perché c’è già in Puglia, la maggior parte del pomodoro si raccoglie con le macchine, però le macchine si guastano, oppure piove, allora ci vogliono le braccia.

Poi ho letto le carte dell’indagine, si parla dei magazzini, quei cubi di cemento dove i camion portano i frutti, c’è scritto che si comincia alle 6 di mattina e si finisce alle 23, a scaricare cassette, come fa la schiena di un uomo a reggere non si capisce, quindi o meccanizzate tutto, ma proprio tutto, oppure ci sarà sempre sfruttamento. Magari è più semplice pagare la gente che lavora.

E le dico un’ultima cosa, voi fatturate 378 milioni l’anno, ma se siete costretti a sfruttare allora cosa deve fare un povero che ha un permesso di soggiorno legato al contratto di lavoro?”.

***

“Pronto, ciao, sono Tatti. Il processo? Va avanti, speriamo bene. Senti, ti ricordi che anni fa un rappresentante di noi produttori della provincia è andato in Prefettura? C’era uno del Comune di Nardò, il delegato del Prefetto, un funzionario dell’Inps, il maresciallo dei carabinieri.

Ci hanno chiesto di dare la casa ai neri, col cazzo abbiamo risposto, alla fine della trattativa era venuta fuori l’idea di bloccare i controlli. Poi non se n’è fatto nulla. Ieri al bar mi hanno detto che hanno fatto questa cosa a livello nazionale, uno si iscrive a un elenco nazionale e non gli fanno i controlli. Come si chiama questa cosa? Rete di qualità, una cosa del genere. Come si fa? E che ne so io! Sei il mio commercialista, informati. Dai che si può fare. In Italia tutto è possibile”.

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