Licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore disabile, legittimo se impossibile la ricollocazione in altre posizioni compatibili con le sue condizioni di salute

Cass. civ., Sez. lavoro, Ord., (data ud. 08/07/2025) 11/09/2025, n. 24994
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DORONZO Adriana - Presidente
Dott. PONTERIO Carla - Consigliere Rel.
Dott. CINQUE Guglielmo - Consigliere
Dott. MICHELINI Gualtiero - Consigliere
Dott. PICCONE Valeria - Consigliere
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso 4331-2023 proposto da:
A.A., rappresentata e difesa dall'avvocato INNOCENZO D'ANGELO;
- ricorrente -
contro
DUE RAGNI Srl;
- intimata -
avverso la sentenza n. 697/2022 della CORTE D'APPELLO di VENEZIA, depositata il 07/12/2022 R.G.N. 125/2022;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 08/07/2025 dalla Consigliera CARLA PONTERIO.
Svolgimento del processo
1. La Corte d'Appello di Venezia ha respinto il reclamo di A.A., confermando la sentenza di primo grado che, al pari dell'ordinanza pronunciata all'esito della fase sommaria, aveva rigettato l'impugnativa del licenziamento per sopravvenuta inidoneità alle mansioni intimatole dalla società DUE RAGNI Srl il 3 ottobre 2018.
2. La Corte territoriale ha premesso che la A.A. era dipendente dall'11.6.2008, con mansioni di barista; che la società gestisce un albergo, con annessi bar, pizzeria e ristorante; che la dipendente era rimasta assente dal lavoro per 440 giorni, dal 2016 al 2018, in seguito ad un incidente stradale; che il medico competente, in data 25 settembre 2018, l'aveva giudicata idonea alle mansioni con le seguenti limitazioni: "esclusione totale dalla movimentazione manuale di carichi, esclusione da stazione eretta prolungata, non può effettuare servizio in sala, prediligere postazione seduta".
La Corte di merito ha ritenuto, facendo proprie le valutazioni del primo giudice, che non vi fossero in azienda mansioni compatibili con le limitazioni imposte dal medico competente; in particolare, la A.A. non poteva essere destinata alle mansioni di cuoca, di addetta alla reception, all'amministrazione o alla cassa, in quanto priva delle necessarie competenze; non poteva svolgere le residue mansioni, di governante ai piani o di pulizia, oppure servizio in sala o al bar, perché tutte implicavano la movimentazione manuale di carichi o comunque la necessità di mantenere la stazione eretta in modo prolungato; che neppure vi era spazio per possibili accomodamenti ragionevoli.
3. Avverso la sentenza ricorre in cassazione A.A. con un unico motivo, illustrato da due memorie. La DUE RAGNI Srl non ha svolto difese.
Il Collegio si è riservato di depositare l'ordinanza nei successivi sessanta giorni, ai sensi dell'art. 380 bis.1 c.p.c., come modificato dal D.Lgs. n. 149 del 2022.
Motivi della decisione
1. Con il motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione o falsa applicazione dell'art. 3, comma 3-bis, del D.Lgs. 216 del 2003, di recepimento della direttiva 2000/78/CE. La ricorrente assume che non vi è stato, da parte del datore di lavoro, alcun tentativo di individuare mansioni compatibili con le sue condizioni di salute e censura la sentenza per avere erroneamente applicato il principio degli accomodamenti ragionevoli, necessari a garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. Afferma di non avere mai sollecitato la creazione di un nuovo posto di lavoro ma semplicemente chiesto una diversa distribuzione delle mansioni tra i vari dipendenti, in un contesto in cui la stessa società ha più volte ribadito che tutti fanno tutto.
1.2. Il motivo di ricorso non è fondato.
Secondo un orientamento oramai consolidato, nell'ipotesi di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore e in presenza dei presupposti di applicabilità dell'art. 3, comma 3 bis, del D.Lgs. n. 216 del 2003, il datore di lavoro ha l'onere di provare la sussistenza delle giustificazioni del recesso, ai sensi dell'art. 5 della legge n. 604 del 1966, dimostrando non solo il sopravvenuto stato di inidoneità del lavoratore e l'impossibilità di adibirlo a mansioni, eventualmente anche inferiori, compatibili con il suo stato di salute, ma anche l'impossibilità di adottare accomodamenti organizzativi ragionevoli, i quali, senza comportare oneri finanziari sproporzionati, siano idonei a contemperare, in nome dei principi di solidarietà sociale, buona fede e correttezza, l'interesse del disabile al mantenimento di un lavoro confacente alla sua condizione psico-fisica con quello del datore a garantirsi una prestazione lavorativa utile all'impresa (v. Cass. n. 6497 del 2021; n. 15002 del 2023; n. 31471 del 2023; n. 35850 del 2023; n. 10568 del 2024; n. 14307 del 2024).
Nei precedenti citati si è sottolineato che l'impossibilità di ricollocare il dipendente disabile, adibendolo a diverse mansioni comunque compatibili con il suo stato di salute, non esaurisce gli obblighi del datore di lavoro che intenda procedere al licenziamento perché, laddove ricorrano i presupposti di applicabilità dell'art. 3, comma 3 bis, D.Lgs. n. 216 del 2003, il datore dovrà comunque ricercare possibili "accomodamenti ragionevoli" che consentano il mantenimento del posto di lavoro, in adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà sociale (art. 2 Cost.), tanto più pregnanti in caso di sostegno a chi versa in condizioni di svantaggio.
Pertanto, a fronte del lavoratore che deduca e provi di trovarsi in una condizione di limitazione, risultante da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature secondo il diritto dell'Unione europea, non sarà sufficiente per il datore di lavoro allegare e provare la mancanza in azienda di posti disponibili, in cui ricollocare il predetto, come si trattasse di un ordinario obbligo di repêchage, né spetta al lavoratore, o tanto meno al giudice, individuare in giudizio quali potessero essere le modifiche organizzative appropriate e ragionevoli idonee a salvaguardare il posto di lavoro; sarà onere, invece, del datore di lavoro dimostrare di avere, con un comportamento positivo, ricercato possibili soluzioni e misure organizzative appropriate e ragionevoli, idonee a consentire lo svolgimento di un'attività lavorativa, altrimenti preclusa, a persona con disabilità.
Sugli accomodamenti ragionevoli si è chiarito che non possono essere dettate, in astratto, prescrizioni cogenti che prescindano dalle circostanze del caso concreto: l'accomodamento infatti postula una interazione fra una persona individuata, con le sue limitazioni funzionali, e lo specifico ambiente di lavoro che la circonda, interazione che, per la sua variabilità, non ammette generalizzazioni; non a caso anche l'art. 5 della direttiva 2000/78/CE individua i provvedimenti appropriati che il datore di lavoro deve prendere "in funzione delle esigenze delle situazioni concrete" (così Cass. n. 10568 del 2024).
In proposito, si è affermato che potrà dirsi ragionevole ogni soluzione organizzativa praticabile che miri a salvaguardare il posto di lavoro del disabile in un'attività che sia utile per l'azienda e che imponga all'imprenditore, oltre che al personale eventualmente coinvolto, un sacrificio che non ecceda i limiti di una tollerabilità considerata accettabile secondo "la comune valutazione sociale" (Cass., n. 6497 del 2021, che richiama Cass., sez. U., n. 5688 del 1979). L'onere di prova datoriale potrà dirsi assolto ove risulti che questi abbia posto in essere ogni possibile sforzo diligente ed esigibile per trovare una soluzione organizzativa appropriata, atta a scongiurare il licenziamento, avuto riguardo ad ogni circostanza rilevante nel caso concreto, potendo il medesimo datore dimostrare come eventuali soluzioni alternative, pure concretamente praticabili, fossero prive di ragionevolezza, perché coinvolgenti altri interessi comparativamente preminenti, ovvero fossero sproporzionate o eccessive, a causa dei costi finanziari o di altro tipo ovvero per le dimensioni e le risorse dell'impresa (così Cass. n. 6497 del 2021). Infine, si è più volte ribadito che, investendo inevitabilmente apprezzamenti di merito, il giudizio espresso in concreto sulla ragionevolezza delle soluzioni è giudizio di fatto sindacabile in sede di legittimità nei limiti di deducibilità del vizio di motivazione (Cass. n. 6798 del 2018; conforme: Cass. n. 13649 del 2019; da ultimo: Cass. n. 35850 del 2023; 10568 del 2024).
Nel caso in esame, non è in discussione che la condizione della lavoratrice rientrasse nell'ambito di applicazione della direttiva e del decreto legislativo n. 216 del 2003. Le censure mosse si dirigono, essenzialmente, sulla ritenuta impossibilità di accomodamenti ragionevoli.
Sul punto, va anzitutto rilevato come le censure della ricorrente siano articolate sul presupposto di una interpretazione della certificazione del medico competente diversa e in qualche modo contrappositiva rispetto a quella adottata dai giudici di merito. In particolare, la difesa della ricorrente legge il limite posto dal medico competente, di "esclusione da stazione eretta prolungata", come preclusivo unicamente delle mansioni che richiedono alla dipendente di stare in piedi nella stessa posizione; con la conseguenza di ritenere non inibite alla medesima le mansioni da eseguire sempre in piedi ma in movimento. Sulla base di tali premesse, la difesa argomenta che la ricorrente avrebbe potuto svolgere le mansioni di barista o di servizio di sala, con stazione eretta ma non fissa, bensì in movimento, magari abbinate a quelle di addetta alla cassa, compatibili con l'uso di uno sgabello.
Al riguardo, deve premettersi che, in base ai principi enunciati da questa Corte, l'interpretazione degli atti negoziali, ed anche degli atti unilaterali, si sostanzia in un accertamento di fatto (cfr. Cass. n. 9070 del 2013; n. 12360 del 2014), riservato all'esclusiva competenza del giudice del merito (cfr. Cass. n. 22318 del 2023; n. 17067 del 2007; Cass. n. 11756 del 2006); il sindacato di legittimità è in tal caso limitato alla verifica del rispetto dei canoni ermeneutici, oltre che al controllo di sussistenza di una motivazione logica e coerente (cfr. Cass. n. 21576 del 2019; n. 20634 del 2018; n. 4851 del 2009; n. 3187 del 2009; n. 15339 del 2008) ed esige la specifica indicazione del modo attraverso cui si è realizzata la violazione delle regole interpretative o l'insanabile contraddittorietà del ragionamento del giudice di merito. Da ciò discende che le censure veicolate col ricorso in cassazione non possono esaurirsi nella prospettazione di una interpretazione alternativa, fondata sulla valorizzazione di alcune espressioni piuttosto che di altre, ma deve rappresentare elementi idonei a far ritenere erronea la lettura data dal giudice del merito, cui l'attività di interpretazione dell'atto è riservata (cfr., Cass. n. 18214 del 2024; n. 15471 del 2017; n. 27136 del 2017; n. 18375 del 2006).
Il motivo di ricorso propone una lettura alternativa del certificato medico e, quindi, delle limitazioni ivi poste all'attività lavorativa della dipendente, senza fare alcun cenno, neanche indiretto, alla violazione delle regole ermeneutiche oppure alla illogicità della motivazione, e tanto basta a decretarne l'inammissibilità.
La Corte d'Appello, interpretato il giudizio del medico competente come preclusivo delle mansioni che comportano una stazione eretta, intesa come posizione verticale del corpo umano senza appoggio, per un lungo lasso di tempo, ha ritenuto assolto l'onere probatorio datoriale, sulla impossibilità di adottare accomodamenti ragionevoli, alla luce di una dettagliata analisi di tutte le mansioni disponibili in azienda e delle possibili soluzioni realizzabili con accorgimenti modificativi.
La sentenza d'appello, facendo proprie le argomentazioni del Tribunale, ha accertato come non fossero affidabili alla A.A., per mancanza di specifiche competenze, le mansioni di cuoca, di addetta alla reception, e all'amministrazione; che non potevano esserle assegnati i compiti di governante ai piani, di addetta alla sala e di barista perché non in linea con le prescrizioni del medico competente. Sul ruolo di addetta al servizio bar, "attività dinamica, da svolgere prevalentemente, se non esclusivamente, in piedi", la Corte territoriale ha verificato la possibilità di modularne l'esecuzione in maniera compatibile con le condizioni di salute della dipendente ed ha appurato che "anche prevedendo come adattamento delle pause... il tempo da passare in piedi nello svolgimento dell'attività lavorativa sarebbe stato comunque enormemente maggiore di quello passato seduta (la prescrizione medica, di contro, prevede l'esclusione da stazione eretta prolungata e la necessità di prediligere una postazione seduta)" (sentenza, p. 16). Allo stesso modo, la sentenza impugnata ha sondato la compatibilità della mansione di addetta alla cassa, "l'unica che può essere svolta anche da seduti", ed ha osservato come la A.A. avrebbe potuto eseguirla solo in parte, in quanto priva di "competenze amministrative per la fatturazione richiesta dalla clientela"; che ciò avrebbe comportato "una irragionevole modifica dell'assetto organizzativo aziendale" per la necessità di individuare un'attività discontinua cui adibire la dipendente negli orari residui e dovendo la società assegnare comunque un'altra risorsa alla cassa, che sarebbe rimasta inoperosa per parte dell'orario di lavoro (sentenza, p. 16).
La sentenza impugnata si è rigorosamente attenuta ai principi di diritto sopra richiamati ed ha correttamente interpretato ed applicato il canone di ragionevolezza, al fine dei possibili accomodamenti, come declinato dalla giurisprudenza di legittimità, sì che nessun vizio di violazione o falsa applicazione di legge è dato rinvenire.
Per il resto, la valutazione in concreto svolta, in base alle caratteristiche oggettive e soggettive del caso, sulla ragionevolezza delle singole soluzioni, poiché investe inevitabilmente apprezzamenti di merito e risulta congruamente motivata, non è sindacabile in questa sede di legittimità, e ciò rende non accoglibile il motivo di ricorso.
2. Deve quindi adottarsi una statuizione di rigetto del ricorso.
Non si fa luogo alla regolazione delle spese del giudizio di legittimità poiché la controparte è rimasta intimata.
Il rigetto del ricorso costituisce presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato, ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. n. 115 del 2002 (cfr. Cass. S.U. n. 4315 del 2020).
La statuizione di rigetto rende priva di rilievo la eventuale irritualità della notifica alla controparte (v. sul punto memoria integrativa depositata nell'interesse della ricorrente) ed impone, per il rispetto del principio della ragionevole durata del processo, di definire con immediatezza il procedimento, non essendovi, in concreto, esigenze di tutela del contraddittorio, delle garanzie di difesa e del diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità (v. Cass. n. 11287 del 2018; n. 8604 del 2017).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Dispone che, in caso di utilizzazione del presente provvedimento in qualsiasi forma, sia omessa l'indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi di A.A., ivi riportati.
Conclusione
Così deciso in Roma, nell'adunanza camerale dell'8 luglio 2025.
Depositato in Cancelleria l'11 settembre 2025.
