La disabilità che rende discriminatorio il licenziamento per superamento del periodo di comporto prescinde da un accertamento degli Enti Previdenziali
TRIBUNALE ORDINARIO DI MILANO
SEZIONE LAVORO
Il Giudice, letti gli atti e i documenti della causa iscritta al n. 356/2022 RGL pendente tra
XXX rappresentata e difesa dall’avv. Silvia Balestro;
RICORRENTE
contro
YYY rappresentata e difesa dall’avv.
Biagio Cartillone;
RESISTENTE
sciogliendo la riserva assunta in data 10.3.22 ha emesso la seguente
ORDINANZA
Con ricorso al Tribunale di Milano, quale Giudice del Lavoro, ai sensi dell’art. 1, comma 48, L.
92/2012, depositato in data 17.1.22, XXX ha convenuto in giudizio YYY per
l’accertamento della nullità e/o illegittimità del licenziamento intimatole in data 15.7.21, con le
conseguenze di cui all’art 18 comma I e II St. Lav. o, in via subordinata di cui all’art 18 comma IV e
VII. La ricorrente ha chiesto accertarsi sussistere ipotesi licenziamento nullo per contrasto all’art 15 L
300/1970 così come modificato dall’art 4 comma I delg.216/2003 c.c. poiché indirettamente
discriminatorio e connesso alla disabilità della lavoratrice. Ciò a suo dire, poiché le assenze effettuate nel
periodo indicato nella lettera di licenziamento sarebbero tutte motivate dalla medesima patologia
cronica (flebolinfodema all’arto inferiore destro) sussumibile nella nozione di patologia di lunga durata
che ostacola la partecipazione alla vita professionale individuata dalla giurisprudenza della Corte di
Giustizia (in particolare sentenza Chacon Navas del 11.7.06 causa C13/05 e HK Danmark 11.4.13 nelle
cause riunite C335/11 e C337/11)
Si è ritualmente costituita in giudizio YYY, contestando in fatto e in diritto
l’avversario ricorso e chiedendone il rigetto, con vittoria di spese e condanna della ricorrente per lite
temeraria.
Fallito il tentativo di conciliazione, alla udienza del 10.3.22, tenutasi mediante collegamento da
remoto, la causa è stata ritenuta in decisione.
La ricorrente risulta aver lavorato alle dipendenze di YYY dal 1.6.2014 e sino al
licenziamento del 15.7.2021 quando, in conseguenza di una prima assenza per malattia del settembre
2020, e della successiva del dicembre 2020, pacificamente interveniva il superamento del periodo di
comporto. La lavoratrice deduce e documenta che la patologia che avrebbe dato luogo alle assenze in
questione sarebbe unica, avrebbe natura cronica ed invalidante ed affliggerebbe la ricorrente già dal
2009.
La società convenuta ha sostanzialmente difeso la correttezza del proprio operato; ciò avuto
specifico riguardo alle disposizioni contrattuali in materia di comporto e all’interpretazione che delle
stesse ha ritenuto di dare. La convenuta ha inoltre stigmatizzato sia il fatto che la lavoratrice non si sia
avvalsa della previsione dell'articolo 195 e 196 del contratto collettivo di riferimento, chiedendo, prima
di superare il periodo di comporto, periodi di ulteriore aspettativa non retribuita, sia la circostanza per
la quale la ricorrente non potrebbe comunque ritenersi individuo handicappato secondo quanto sancito
dall’art 4 della legge 104/1992.
La impostazione difensiva della resistente, pur formalmente lineare, non convince.
Come correttamente rilevato in ricorso, la Corte di Giustizia ha in tema e reiteratamente
chiarito come la la nozione di handicap vada intesa come un limite che deriva, in particolare, da minorazioni
fisiche, mentali psichiche e che ostacola la partecipazione della persona considerata alla vita professionale”, sicchè
“utilizzando la nozione di “handicap” all’art. 1 della direttiva di cui trattasi, il legislatore ha deliberatamente scelto un
termine diverso da quello di “malattia”. Muovendo da tale considerazione la Corte ha quindi escluso
“un’assimilazione pura e semplice delle due nozioni”, precisando che “perché una limitazione possa rientrare nella
nozione di “handicap” deve quindi essere probabile che essa sia di lunga durata” e che abbia l’attitudine a incidere
od ostacolare la vita professionale per un lungo periodo (Corte Giustizia, Navas vs. Eurest Colectivadades
SA, C-13/05).
A tale nozione deve dunque farsi riferimento poiché, come rammentato dallo stesso Giudice
Europeo, “dall’imperativo tanto dell’applicazione uniforme del diritto comunitario quanto del principio di uguaglianza
discende che i termini di una disposizione di diritto comunitario che non contenga alcun espresso richiamo al diritto degli
Stati membri per quanto riguarda la determinazione del suo senso e della sua portata devono di norma essere oggetto
nell’intera comunità di un’interpretazione autonoma e uniforme da effettuarsi tenendo conto del contesto della disposizione
e della finalità perseguita dalla normativa di cui trattasi” (Corte Giustizia, Navas vs. Eurest Colectivadades SA, C13/05, cit.).
Come dunque non potrà richiamarsi il divieto di discriminazione fondata sull’handicap non
appena si manifesti una qualunque malattia, così potrà parlarsi di handicap ogniqualvolta la malattia sia di
lunga durata, necessiti di cure ripetute e invalidanti, e/o abbia l’attitudine a incidere negativamente sulla
vita professionale del lavoratore anche costringendolo a reiterate assenze (cfr. Tribunale di Milano, 11
febbraio 2013).
Sul punto merita peraltro ricordare come, secondo la Direttiva 2000/78/CE quanto a parità di
trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro: “la messa a punto di misure per tener conto
dei bisogni dei disabili sul luogo di lavoro [abbia] un ruolo importante nel combattere la discriminazione basata
sull’handicap” (Sedicesimo Considerando), e come “il divieto di discriminazione [non debba] pregiudicare il
mantenimento o l’adozione di misure volte a prevenire o compensare gli svantaggi incontrati da un gruppo di persone…
avente determinati handicap…” (Ventiseiesimo Considerando), come “nella sua raccomandazione
86/379/CEE del 24 luglio 1986 concernente l’occupazione dei disabili nella Comunità, il Consiglio [abbia] definito
un quadro orientativo in cui si elencano alcuni esempi di azioni positive intese a promuovere l’occupazione e la formazione
di portatori di handicap, e nella sua risoluzione del 17 giugno 1999 relativa alle pari opportunità di lavoro per i disabili,
[abbia] affermato l’importanza di prestare un’attenzione particolare segnatamente all’assunzione e alla permanenza sul
posto di lavoro del personale e alla formazione e all’apprendimento permanente dei disabili” (Ventisettesimo
Considerando).
Con la conseguenza che:“sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una
prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio… le persone portatrici di un
particolare handicap… a meno che: i) tale disposizione, tale criterio o tale prassi siano oggettivamente giustificati da una
finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari; o che ii) nel caso di persone
portatrici di un particolare handicap, il datore di lavoro o qualsiasi persona o organizzazione a cui si applica la presente
direttiva sia obbligato dalla legislazione nazionale ad adottare misure adeguate, conformemente ai principi di cui
all’articolo 5, per ovviare agli svantaggi provocati da tale disposizione, tale criterio o tale prassi” (art. 2, lett. b,
Direttiva 200/78/CE).
Facendo dunque applicazione al caso concreto dei principi poco sopra richiamati, ampiamenti
condivisi anche dal Legislatore nazionale con il Decreto Legislativo 216/2003, non può che concludersi
per la fondatezza della tesi attorea.
In forza principi appena richiamati, fatti propri dal legislatore nazionale con il Decreto
Legislativo 216/2003, non può che concludersi per la fondatezza della tesi attorea.
Appare infatti evidente come, ai fini del computo delle assenze per malattia – e dunque del
calcolo della maturazione del comporto del dipendente disabile – le assenze per malattia connesse alla
specifica condizione di disabilità costituisca discriminazione indiretta, in quanto “prassi… o un
comportamento apparentemente neutri” che, tuttavia, mette “le persone portatrici di handicap… in una situazione di
particolare svantaggio rispetto ad altre persone” (art. 2, co. 1, lett. b), D. Lgs. 216/2003).
Merita richiamare quanto chiarito dalla giurisprudenza di questo stesso Tribunale con
motivazione assolutamente condivisibile che di seguito si riporta e richiama anche ai sensi e per gli
effetti di cui all’art 118 disp.att. c.p.c.: L’assunto della assoluta equiparabilità della condizione del lavoratore
invalido con quella del lavoratore non disabile ma affetto malattia e, quindi, della possibilità di applicare ai primi la
medesima – indistinta – disciplina in materia di comporto è, con tutta evidenza, erroneo. Così operando, infatti, si
regolano nel medesimo modo due situazioni radicalmente differenti, violando il principio di uguaglianza sostanziale e,
prima ancora, dando luogo a una discriminazione indiretta. Tanto si afferma in quanto i lavoratori affetti da una
inabilità sono soggetti portatori di uno specifico fattore di rischio che ha quale ricaduta più tipica, connaturata alla
condizione stessa di disabilità, quella di determinare la necessità per il lavoratore sia di assentarsi più spesso per malattia
sia di ricorrere, in via definitiva o per un protratto periodo di tempo, a cure specifiche e/o periodiche.
Di qui, necessariamente, l’esigenza di interpretare la disciplina in materia di comporto in una prospettiva di
salvaguardia dei lavoratori che, portatori di disabilità, si trovano in una condizione di oggettivo e ineliminabile svantaggio.
Vien da sé che, nella materia che qui ci occupa, alla condizione di invalidità/disabilità deve riconoscersi una
rilevanza obiettiva, per il sol fatto della ricorrenza di un’effettiva minorazione fisica e indipendentemente dal
riconoscimento formale che della stessa i competenti Enti Previdenziali ne abbiano dato, pena la frustrazione in nuce delle
tutele di legge. D’altronde, assoggettare l’applicazione delle tutele riservate ai soggetti portatori di questo specifico fattore di
rischio alla ricorrenza, o all’adempimento, di formalità di qualsivoglia natura significherebbe creare un vulnus oltremodo
severo allo statuto di protezione previsto dall’ordinamento, frustrandone ratio ed efficacia. (così ord. resa dal Tribunale
di Milano, Sez. Lav. del 12.6.2019 , Giudice dott.ssa COLOSIMO, procedimento N. 4139/19
R.G.L.).
Analogamente, il Tribunale di Milano con ordinanza del 6 aprile 2018 già aveva rilevato che “da
ciò si ricava pertanto che la norma contrattuale la quale limita a 180 giorni di assenza l’avvenuto superamento del periodo
di comporto – e quindi rende legittima la risoluzione del rapporto di lavoro – non può trovare applicazione nel caso di
specie in quanto sarebbe causa di una discriminazione indiretta: pur essendo una disposizione di per sé neutra essa pone il
portatore di handicap – in questo caso il ricorrente – in una condizione di particolare svantaggio rispetto agli altri
lavoratori. E’ infatti evidente che il portatore di handicap è costretto ad un numero di assenze di gran lunga superiore
rispetto al lavoratore che limita le proprie assenze ai casi di contingenti patologie che hanno una durata breve o comunque
limitata nel tempo. E’ per tali soggetti che il termine di comporto è evidentemente previsto. Sicché una interpretazione della
norma contrattuale rispettosa dei principi affermati dalla direttiva 2000/78, dal decreto legislativo 2016/03 e dalla
sentenza della Corte di Giustizia prima esaminati deve fare escludere dal computo del termine per il comporto i periodi di
assenza che trovino origine diretta nella patologia causa dell’handicap (a tale conclusione era peraltro pervenuta la Corte di
Giustizia con la sentenza del 2013 richiamata, a proposito di un termine di preavviso di 120 giorni cfr punto 76 della
sentenza) [..]E’ infatti evidente che il portatore di handicap aggiunge, ai normali periodi di malattia che subisce per cause
diverse dall’handicap, quelle direttamente collegate a quest’ultimo: ma una parità di trattamento tra lavoratori esige che
solo con riferimento alle prime i lavoratori portatori di handicap e tutti gli altri siano sottoposti al limite temporale del
comporto”.
Nel caso di specie si ritiene che dalla documentazione medica offerta in produzione in uno al
ricorso ben emerga come le assenze della lavoratrice che hanno determinato il superamento
dell’ordinario periodo di comporto siano in larghissima parte riconducibili alla patologia di insufficienza
venosa cornica scompensata, associata ad insufficienza del sistema linfatico, ovvero alla flebolinfodema all’arto
inferiore destro, della quale la ricorrente risulta essere affetta sin dal 2009, oltre che riconducibili alla
associata gonoartrosi (di cui è conseguenza il trauma contusivo alla gamba destra del 18.2.2021)
Nessun dubbio peraltro può aversi sul fatto che si tratti di patologia che affligge la ricorrente da
oltre 10 anni e che abbia di fatto limitato la vita lavorativa della ricorrente: tanto emerge in maniera
palmare ove solo si consideri che essa ha impedito concretamente il rientro al lavoro.
Nemmeno può assumere alcun rilievo il fatto che il datore non sia stato nel tempo messo al
corrente della situazione di salute della lavoratrice – la quale lo ha infatti informato delle proprie
condizioni solo in epoca successiva al licenziamento.
Al riguardo, come noto, in linea con quanto affermato dal diritto dell’Unione Europea e
confermato dal Legislatore nazionale, la discriminazione non può che rilevare oggettivamente, essendo
del tutto irrilevante, ai fini del riconoscimento della discriminatorietà di un atto, la condizione o
l’intento soggettivo dell’agente; ciò che conta è infatti ed unicamente l’effetto oggettivamente
considerato del trattamento discriminatorio.
Sul punto, la Suprema Corte ha per vero chiarito che: la discriminazione – diversamente dal motivo
illecito – opera obiettivamente, ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale
effetto della sua appartenenza alla categoria protetta, ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro (Cass.
Civ., Sez. Lav., Sez. Lav., 5 aprile 2016, n. 6575).
Per questi motivi, in accoglimento della domanda principale, deve essere dichiarata la natura
discriminatoria del licenziamento intimato alla ricorrente conseguente diritto della stessa di vedersi
applicata la massima tutela di cui all’art. 18 Legge 300/1970.
La società dovrà per l’effetto essere condannata all’immediata reintegrazione della lavoratrice
oltre che al risarcimento del danno determinato nella retribuzione mensile globale di fatto pari a €
2.095,95 lordi mensili (come dedotto in ricorso e dalla resistente non contestato) da corrispondersi dalla
data del licenziamento a quella di effettiva reintegrazione – detratto l’aliunde perceptum – e, comunque, in
misura non inferiore a cinque mensilità, oltre interessi e rivalutazione e versamento dei contributi
assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento al momento dell’effettiva reintegrazione.
Ogni residua questione ulteriore di cui in atti resta disattesa o assorbita in quanto superflua ai
fini del decidere.
Le spese di lite seguono l’ordinario criterio della soccombenza e sono pertanto poste a carico
della resistente soccombente nella misura indicata in dispositivo e con distrazione in favore del
difensore dichiaratosi antistatario.
PQM
1) in accoglimento del ricorso, accerta e dichiara la nullità del licenziamento intimato da YYY a XXX in data 15.7.21 e ordina l’immediata reintegra della ricorrente
nel posto di lavoro;
2) condanna YYY a risarcire alla ricorrente il danno determinato nell’indennità mensile di
€ 2.095,95 da corrispondere dalla data del licenziamento a quella di effettiva reintegra, oltre
interessi e rivalutazione dal licenziamento al saldo effettivo, nonché a versare i contributi di legge
per l’intero periodo di avvenuta interruzione del rapporto di lavoro;
3) condanna la resistente a rimborsare al ricorrente le spese di lite che si liquidano in complessivi €
2.500,00 oltre accessori con distrazione in favore del difensore antistatario;
Si comunichi alle parti.
Milano, 2.5.22
Il Giudice
Claudia Tosoni