Illegittimo il licenziamento per superamento del periodo di comporto del disabile nel CCNL Multiservizi
Cass. civ., Sez. lavoro, Ord., (data ud. 11/04/2024) 05/06/2024, n. 15723
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Antonio - Presidente
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni - Consigliere
Dott. PAGETTA Antonella - Consigliere
Dott. PONTERIO Carla - Relatore
Dott. CINQUE Guglielmo - Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso 8897-2023 proposto da:
EUROEPROMOS FM Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE GIULIO CESARE 61, presso lo studio dell'avvocato MARA CURTI, rappresentata e difesa dall'avvocato FLAVIO MATTIUZZO;
- ricorrente -
contro
A.A., domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall'avvocato IDA TOMASIELLO;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 4330/2022 della CORTE D'APPELLO di NAPOLI, depositata il 11/01/2023 R.G.N. 2808/2021; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/04/2024 dalla Consigliera CARLA PONTERIO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ROBERTO MUCCI, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l'avvocato MARCO GALLETTI per delega verbale avvocato FLAVIO MATTIUZZO;
udito l'avvocato IDA TOMASIELLO.
Svolgimento del processo
1. La Corte d'appello di Napoli ha respinto l'appello della EuroEPromos FM Spa, confermando la sentenza di primo grado che aveva dichiarato nullo, perché discriminatorio, il licenziamento intimato il 24 marzo 2020 a A.A. per superamento del periodo di comporto.
2. La Corte territoriale ha premesso che la lavoratrice era stata assunta dalla società il 1 aprile 2015, con contratto di lavoro subordinato a tempo parziale e indeterminato, con la qualifica di operaia addetta alle pulizie; che al rapporto di lavoro era applicato il c.c.n.l. per le imprese di pulizie e multiservizi; che la stessa si è assentata dal lavoro per malattia dal 26.2.2018 al 13.5.2018; che a fine aprile 2019 le è stato diagnosticato un carcinoma della mammella destra con metastasi linfonodali; che per tale patologia è stata sottoposta a intervento chirurgico il 13.5.2019, con degenza fino al 15.5.2019, e successivamente a ripetuti trattamenti chemioterapici, rimanendo assente dal lavoro per i giorni indicati in atti; che il 12.8.2019 ha inoltrato alla società la certificazione rilasciatale dall'Asl lo stesso giorno e attestante la grave patologia da cui era affetta; che il licenziamento è stato
intimato per il superamento del periodo di comporto ed esattamente a seguito di 373 giorni di assenza per malattia nel triennio.
3. Richiamate la Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità del 13.12.2006 e la direttiva 2000/78/CE recepita nell'ordinamento nazionale dal D.Lgs. 216 del 2003 modificato dal decreto-legge n. 76 del 2013 , convertito dalla legge 99 del 2013 , la Corte di secondo grado, premesso che la società datrice di lavoro conosceva perfettamente la condizione di handicap della dipendente (poiché aveva ricevuto la certificazione rilasciata dall'Asl attestante la grave patologia dalla stessa contratta e poiché i certificati medici trasmessi recavano l'indicazione dei trattamenti chemioterapici), ha ritenuto integrata una discriminazione indiretta, per non avere il datore di lavoro attuato un regime differenziato, ai fini del computo del periodo di comporto, con riguardo alle malattie connesse allo stato di disabilità e, specificamente, per non aver escluso dal calcolo rilevante ai fini del comporto i giorni di assenza per malattia correlati allo stato di disabilità della dipendente. Ha escluso che la previsione contenuta nell'articolo 51 del c.c.n.l. Multiservizi (ai sensi del quale il lavoratore, una volta superati i limiti di conservazione del posto, può chiedere "un periodo di aspettativa non superiore a quattro mesi durante il quale il rapporto di lavoro rimane sospeso a tutti gli effetti senza decorrenza della retribuzione e di alcun istituto contrattuale") potesse costituire un accomodamento ragionevole, ai sensi dell'articolo 3 , comma 3-bis, del decreto legislativo n. 216 del 2003 , trattandosi di misura destinata a tutti i lavoratori. Ha parimenti escluso che la disapplicazione dell'articolo 51 del contratto collettivo comportasse un onere eccessivo per la parte datoriale, facendo ricadere sulla stessa le conseguenze dell'handicap della dipendente, in ragione del modesto scarto tra i giorni di assenza per malattia dalla signora A.A. (373 giorni) e il limite (365 giorni) previsto dalla norma collettiva applicabile a qualsiasi lavoratore. Ha respinto la censura della società per mancata detrazione dell'aliunde perceptum o percipiendum in ragione della mancanza delle necessarie allegazioni da parte datoriale.
4. Avverso la sentenza la EuroEPromos FM Spa ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi. A.A. ha resistito con controricorso. La società ha depositato memoria. Il Procuratore Generale ha depositato conclusioni scritte con cui ha chiesto il rigetto del ricorso.
Motivi della decisione
5. Con il primo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., violazione dell'art. 2110 c.c. e dell'art. 51 del c.c.n.l. Multiservizi; errata applicazione dell'art. 51 cit.; falsa applicazione della direttiva 2000/78/CE e degli artt. 2 , comma 1 lett. b) e 3, comma 3-bis, del D.Lgs. 216 del 2003 . La società critica la sentenza d'appello per aver escluso che le previsioni del contratto collettivo fossero compatibili con la normativa sovranazionale. Rileva che il contratto collettivo Multiservizi prevede un periodo di comporto particolarmente lungo (365 giorni nell'arco di 36 mesi) e che tale lunghezza costituisce, di per sé, un accomodamento ragionevole a tutela dei disabili in quanto garantisce la conservazione del posto di lavoro per un periodo di tempo compatibile anche con le patologie più gravi. Sottolinea che l'articolo 51 del c.c.n.l. contempla l'ulteriore accomodamento ragionevole dato dalla possibilità, per il lavoratore, di conservare il posto di lavoro, una volta superato il periodo di comporto, usufruendo di una aspettativa per la durata di quattro mesi; che l'aspettativa, prevista a favore di tutti i lavoratori, rappresenta una ulteriore tutela a favore di quei dipendenti che, per motivi di salute, hanno necessità di assentarsi dal lavoro per un tempo superiore a 365 giorni in tre anni, dunque per tutti quei soggetti che soffrono delle patologie più gravi e debilitanti. Osserva che l'interpretazione data dai giudici di appello, e la disapplicazione del citato art. 51 del c.c.n.l., pongono il datore di lavoro nell'assoluta impossibilità di comprendere quando il comporto possa ritenersi superato e lo
collocano nella situazione, eccessivamente onerosa, di dover conservare il posto di lavoro per un periodo di tempo indeterminato, in pieno contrasto con l'esigenza, perseguita dall'articolo 2110 c.c. e dalle norme collettive, di garantire un termine oggettivo e certo del periodo di comporto.
6. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., la nullità della sentenza per omessa (o apparente) motivazione, con riferimento al primo e al secondo motivo di appello proposto dalla società. Con tali motivi la società aveva allegato che le assenze per malattia riconducibili alla disabilità della signora A.A. erano state, per sua stessa ammissione, pari a 246 giorni e che il periodo di comporto era stato superato dopo la conclusione della malattia oncologica e dopo che la predetta era stata giudicata, dal medico competente, idonea alla prestazione lavorativa; la società aveva, inoltre, contestato che la malattia contratta dalla dipendente fosse riconducibile alla nozione di handicap, come definita dalla Corte di Giustizia, mancando il carattere di "duratura" menomazione atta ad ostacolare la piena ed effettiva partecipazione alla vita professionale. La società rileva, ancora, che la Corte di merito non ha argomentato sulla circostanza, obiettiva ed incontestata, secondo cui la dipendente non ha chiesto di poter usufruire dell'aspettativa non retribuita per ulteriori quattro mesi, così da conservare il posto di lavoro.
7. Con il terzo motivo è denunciata, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., violazione dell'art. 2697 c.c. e dell'art. 1227 , comma 2 c.c. La società fa presente di avere, sin dalla memoria ex articolo 416 c.p.c., allegato che la signora A.A. era rimasta disoccupata, dopo il licenziamento, e non aveva dimostrato di essersi attivata con l'ordinaria diligenza nella ricerca di una nuova occupazione. Censura la sentenza d'appello per non aver valorizzato il dato della mancata iscrizione della ex dipendente alle liste di collocamento, ai fini dell'aliunde percipiendum.
8. Il primo motivo di ricorso non è fondato, alla luce dei principi di recente affermati da questa Corte con la sentenza n. 9095 del 2023 ed ulteriormente ribaditi e precisati con le sentenze n. 14316 e n. 14402 del 2024.
9. Come affermato nei precedenti citati, la tutela contro la discriminazione basata sulla disabilità trova fondamento in diverse fonti sovranazionali: nella direttiva 2000/78/CE ; nella Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea che, all'art. 21, vieta qualsiasi forma di discriminazione anche in ragione della disabilità e, all'art. 26, proclama il diritto delle persone con disabilità a beneficiare di misure che ne garantiscano l'autonomia, l'inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità; nella Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dall'Italia con legge n. 18 del 2009 e approvata dall'Unione Europea con decisione del Consiglio del 26 novembre 2006.
10. In numerose pronunce la Corte di Giustizia ha definito la nozione di handicap/disabilità, quale limitazione risultante da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e ha ribadito il principio per cui le direttive antidiscriminatorie vanno interpretate alla luce della Convenzione ONU (v. CGUE sentenze 11 aprile 2013, HK Danmark, C335/11 e C- 337/11, punti 38-42; 18 marzo 2014, Z., C-363/12, punto 76; 18 dicembre 2014, FOA, C-354/13, punto 53; 1 dicembre 2016, Mo. Da. C-395/15, punti 41-42; 18 gennaio 2018, Carlos Enrique Ruiz Conejero C 270/16).
11. Nella sentenza da ultimo citata la CGUE ha affermato che la definizione di discriminazione indiretta contenuta nella direttiva UE osta a una normativa nazionale che consenta il licenziamento di un lavoratore in ragione di assenze intermittenti dal lavoro, sebbene giustificate, nella situazione in cui tali assenze sono dovute a malattie imputabili alla disabilità di cui soffre il lavoratore, salvo verifica
di quanto necessario per raggiungere l'obiettivo legittimo di lotta contro l'assenteismo; ha osservato che un trattamento sfavorevole basato sulla disabilità contrasta con la tutela prevista dalla direttiva 2000/78/CE unicamente nei limiti in cui costituisca una discriminazione ai sensi dell'articolo 2, paragrafo 1, della stessa; ha affermato che un lavoratore disabile, rispetto ad un lavoratore non affetto da disabilità, è in linea di principio maggiormente esposto al rischio di accumulare un numero più elevato di assenze a causa della malattia collegata alla sua disabilità, e quindi di raggiungere i limiti massimi di conservazione del posto di lavoro; ha rilevato come una normativa (in quel caso, l'art. 52 lett. d), dello Statuto dei lavoratori spagnolo) che fissa limiti massimi di malattia in maniera identica per lavoratori disabili e non, in vista del recesso datoriale, fosse idonea a svantaggiare i lavoratori disabili e, quindi, a comportare una disparità di trattamento indirettamente basata sulla disabilità, ai sensi dell'articolo 2 , paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78 (nello stesso senso v. sentenza dell'11 aprile 2013, HK Danmark, C-335/11 e C-337/11, punto 76).
12. Come ribadito da questa Corte (sentenza n. 9095 del 2023 cit.), l'approdo interpretativo, necessitato dalla normativa europea trasposta in quella domestica, è nel senso che il rischio aggiuntivo di essere assente dal lavoro per malattia di un lavoratore disabile deve essere tenuto in conto nell'assetto dei rispettivi diritti e obblighi in materia, con la conseguenza che la sua obliterazione in concreto, mediante applicazione del periodo di comporto breve come per i lavoratori non disabili, costituisce condotta datoriale indirettamente discriminatoria e perciò vietata.
13. Sulla base di tali premesse, nel caso in esame, in cui non vi è contestazione sulla circostanza che la società conoscesse la condizione di disabilità della dipendente, correttamente la Corte di merito ha ritenuto integrata una discriminazione indiretta per avere la datrice di lavoro applicato nei confronti della dipendente in condizione di disabilità la medesima previsione di durata del periodo di conservazione del posto di lavoro, valida per i dipendenti non affetti da disabilità.
14. In relazioni ai principi di diritto richiamati, non risultano pertinenti le argomentazioni svolte col motivo di ricorso in esame sulla previsione, nel contratto collettivo applicato, di un periodo di comporto particolarmente lungo (365 giorni in 3 anni), idoneo di per sé a garantire la conservazione del posto di lavoro anche alle persone portatrici di gravi patologie. Tali argomenti non colgono l'essenza della tutela antidiscriminatoria che, per il profilo che qui interessa (discriminazione indiretta), si fa carico di elidere la condizione di svantaggio in cui le persone portatrici del fattore di discriminazione possono venire a trovarsi ove siano destinatarie del medesimo trattamento riservato alla generalità delle persone. Non è quindi la durata, più o meno lunga, del periodo di comporto prevista per la generalità dei dipendenti che può eliminare o ridurre la condizione di svantaggio del lavoratore affetto da disabilità perché questi si troverà comunque esposto al rischio di ammalarsi più frequentemente rispetto ai colleghi non portatori di disabilità, di accumulare più assenze dal lavoro e di raggiungere più in fretta il limite massimo del periodo di conservazione del posto, risolvendosi l'uniformità di trattamento in condizione di per sé idonea a porre il lavoratore portatore del fattore di discriminazione in una condizione sfavorevole rispetto al tertium comparationis. 15. Per le stesse ragioni, la discriminazione indiretta, derivante dalla mancata differenziazione della disciplina in materia di comporto, non può ritenersi esclusa per effetto dell'art. 51 del c.c.n.l., che consente a tutti i dipendenti che abbiano superato il periodo di comporto di usufruire di una aspettativa di quattro mesi, trattandosi di rimedio non idoneo ad elidere la situazione di svantaggio in cui il lavoratore disabile può trovarsi rispetto agli altri lavoratori, e ciò pur a prescindere
dal rilievo dell'essere la concessione dell'aspettativa (non retribuita) rimessa alla discrezionalità del datore di lavoro.
16. Quanto finora detto non comporta che un limite massimo in termini di giorni di assenza per malattia del lavoratore disabile non possa o non debba essere fissato. Una simile scelta discrezionale del legislatore o delle parti sociali per quanto di competenza, anche ai fini di combattere fenomeni di assenteismo per eccessiva morbilità, può integrare, come ricordato nelle sentenze della CGUE citate, una finalità legittima di politica occupazionale, e in tale senso oggettivamente giustificare determinati criteri o prassi in materia. Tuttavia, tale legittima finalità deve essere attuata con mezzi appropriati e necessari, e quindi proporzionati, mentre, come sottolineato da Cass. n. 9095 del 2023 cit., è proprio la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, connessi alla disabilità, che trasforma il criterio apparentemente neutro del computo del periodo di comporto breve in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto in quanto in posizione di particolare svantaggio.
17. La contrattazione collettiva che, come quella oggetto di causa, stabilisce un identico periodo di durata del comporto per tutti i lavoratori, senza prendere in specifica considerazione la posizione di svantaggio del disabile e senza adottare gli accomodamenti ragionevoli prescritti dalla Direttiva 2000/78/CE e dall'art. 3 comma 3bis D.Lgs. n. 216 del 2003 , realizza una discriminazione indiretta, come correttamente ritenuto dalla Corte d'appello.
18. Parimenti infondato è il secondo motivo di ricorso, che denuncia la nullità della sentenza per motivazione omessa o apparente sulla condizione di disabilità della lavoratrice e sulla riconducibilità alla stessa delle assenze per malattia computate ai fini del comporto.
19. Come è noto, le Sezioni unite di questa Corte (Cass. SS. UU. n. 8053 e n. 8054 del 2014) hanno sancito come l'anomalia motivazionale, implicante una violazione di legge costituzionalmente rilevante, integri un error in procedendo che comporta la nullità della sentenza solo nei casi di "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", di "motivazione apparente", di "contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili", di "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile"; si è ulteriormente precisato che di "motivazione apparente" o di "motivazione perplessa e incomprensibile" può parlarsi laddove essa non renda percepibili le ragioni della decisione, perché frutto di argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l'iter logico seguito per la formazione del convincimento, e non consenta alcun effettivo controllo sull'esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice" (Cass. SS. UU. n. 22232 del 2016 ; v. pure Cass. SS. UU. n. 16599 del 2016 ). Simili anomalie non sono in alcun modo rinvenibili nella decisione impugnata che ha accertato e motivato sulla "condizione di handicap della sig.ra A.A." (peraltro nota alla società datoriale) legata alla grave patologia da cui la stessa era risultata affetta e sulla inclusione, ai fini del computo del comporto, dei "giorni di assenza per malattia correlati allo stato di disabilità" (sentenza d'appello, p. 7, primo e secondo cpv.). Né è idoneo a scalfire la conclusione adottata dai giudici di appello il rilievo della società sulla durata, per soli 246 giorni, delle assenze riconducibili alla disabilità, atteso che ciò non incide sulla discriminatorietà della mancata diversificazione del periodo massimo di comporto per i lavoratori affetti da disabilità.
20. Anche il terzo motivo è infondato.
21. La società censura la sentenza per la mancata detrazione, dall'indennità risarcitoria, dell'aliunde percipiendum assumendo di avere tempestivamente allegato il fatto della mancata iscrizione della lavoratrice nelle liste di disoccupazione.
22. Deve premettersi che il licenziamento per cui è causa, intimato ad una lavoratrice assunta il 1 aprile 2015, ricade sotto la disciplina dettata dal D.Lgs. n. 23 del 2015 .
23. L'art. 2 di tale decreto legislativo disciplina il "licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale" e, dopo aver disposto al primo comma l'obbligo di reintegra del dipendente, al secondo comma statuisce: "con la pronuncia di cui al comma 1, il giudice condanna altresì il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata la nullità e l'inefficacia, stabilendo a tal fine un'indennità commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali".
24. La norma prevede unicamente la detrazione di "quanto percepito" dal lavoratore licenziato nel periodo di estromissione (l'aliunde perceptum) e non anche di quanto lo stesso avrebbe potuto percepire (aliunde percipiendum), come invece espressamente previsto del successivo art. 3, comma 2, così formulato: " ... dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro ai sensi dell'articolo 4 , comma 1, lettera c), del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181 , e successive modificazioni". La diversa locuzione adoperata nelle due disposizioni del medesimo testo normativo è significativa della volontà di differenziare, anche sul punto dell'aliunde percipiendum, le conseguenze del licenziamento nullo da quelle del licenziamento illegittimo. La previsione normativa della possibilità di detrazione unicamente dell'aliunde perceptum determina l'infondatezza del motivo di ricorso in esame.
25. Per le ragioni esposte il ricorso deve essere respinto.
26. La regolazione delle spese del giudizio di legittimità segue il criterio di soccombenza, con liquidazione come in dispositivo.
27. Il rigetto del ricorso costituisce presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato, ai sensi dell'art. 13 , comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002 (cfr. Cass. S. U. n. 4315 del 2020 ).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 5.000,00 per compensi professionali, euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.
Ai sensi dell'art. 13, co. 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art.13, se dovuto.
Conclusione
Così deciso all'udienza dell'11 aprile 2024.
Depositato in Cancelleria il 5 giugno 2024.