Il datore di lavoro è chiamato a risarcire il danno sia alla professionalità e alla salute della lavoratrice demansionata

Cassazione Civile Sezione Lavoro Ordinanza 21/3/2024 n 7640 Rel Cons. Dott. Riverso
Il datore di lavoro risponde del danno alla salute (stress lavoro correlato) determinato dal demansionamento della lavoratrice
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Cassazione Civile Sezione Lavoro Ordinanza 21/3/2024 n 7640 Rel Cons. Dott. Riverso

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DORONZO Adriana - Presidente

Dott. GARRI Fabrizia - Consigliere

Dott. AMENDOLA Fabrizio - Consigliere

Dott. CASO Francesco Giuseppe Luigi - Rel. Consigliere

Dott. MICHELINI Gualtiero - Consigliere

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso 19629-2020 proposto da:

BPER BANCA Spa, già Banca Popolare dell'Emilia Romagna - Società Cooperativa, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ENNIO QUIRINO VISCONTI 20, presso lo studio degli avvocati ANNACLARA CONTI, MARIO ANTONINI, che la rappresentano e difendono;

- ricorrente -

contro

A.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LUIGI PIGORINI N. 21, presso lo studio dell'avvocato TERESA VISCOMI, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato LUCA DE ANNUNTIIS;

- controricorrente -

avverso la sentenza n. 712/2019 della CORTE D'APPELLO di L'AQUILA, depositata il 07/11/2019 R.G.N. 722/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio

del 23/01/2024 dal Consigliere Dott. FRANCESCO GIUSEPPE LUIGI CASO.

Svolgimento del processo
1. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte d'appello di L'Aquila, in accoglimento per quanto di ragione dell'appello proposto dalla BPER Banca Spa contro la sentenza del Tribunale n. 130/2018 della medesima sede, e in parziale riforma di quest'ultima decisione, che per il resto confermava, condannava la BPER Banca Spa al pagamento, in favore di A.A., dell'importo dovuto a titolo di risarcimento del danno da dequalificazione professionale, nella misura di 1/3 della retribuzione netta percepita per l'effettivo periodo di demansionamento (pari a mesi sei), nonché, a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, della somma di Euro 19.874,00 (già rivalutata), oltre interessi legali dalla data di pubblicazione della stessa sentenza e fino al soddisfo.

2. Per quanto qui interessa, la Corte territoriale anzitutto disattendeva le argomentazioni della BPER Banca a mezzo delle quali essa censurava la sentenza di primo grado per aver ritenuto sussistente, facendo erronea valutazione delle risultanze documentali e delle prove orali, il demansionamento professionale della lavoratrice A.A.

2.1. In tal senso, la Corte osservava che, fermo restando che non vi era contestazione sullo svolgimento del rapporto come in precedenza descritto sotto il profilo del mero accadimento storico, l'affermazione secondo cui la prova orale si sarebbe rivelata lacunosa e contraddittoria non sembrava cogliere nel segno, atteso che numerosi testi (le cui deposizioni riferiva nei passi salienti) avevano unanimemente confermato che la A.A., pur dotata di una propria postazione lavorativa, era stata in realtà costantemente lasciata in stato di forzata inoperosità.

3. Evidenziato quindi il percorso lavorativo della A.A. che, a partire quanto meno dal maggio 2010, si era sviluppato interamente all'interno del settore dei crediti deteriorati e della fase precontenziosa, riteneva che le condizioni in cui ella aveva operato a C, come in precedenza descritte, avevano quindi comportato un'evidente dispersione del patrimonio professionale precedentemente acquisito nell'ambito del settore dei crediti deteriorati e del precontenzioso.

3.1. Riteneva, perciò, la Corte territoriale che, in applicazione dei principi giurisprudenziali ormai consolidati, vi era in atti prova sufficiente di una situazione di dequalificazione e di svilimento della professionalità precedentemente acquisita. In particolare, alla luce della documentazione in atti e della prova testimoniale espletata in prime cure, era risultato sufficientemente dimostrato che la condotta datoriale, nel lasciare forzosamente inoperosa la lavoratrice, aveva comportato uno svilimento ed un impoverimento di quel corredo di nozioni, abilità ed esperienze che la prestatrice aveva precedentemente maturato, impedendole una piena utilizzazione del patrimonio professionale acquisito nella fase pregressa del rapporto.

3.2. E, sulla scorta di tali considerazioni, concludeva che si era prodotto un evidente pregiudizio in danno dell'allora appellata, fonte di obbligazione risarcitoria a carico del datore di lavoro, sia sotto il profilo del danno alla professionalità, sia con riguardo ad un eventuale pregiudizio alla salute.

4. Esaminando, quindi, partitamente dette due categorie di danno risarcibile (danno alla professionalità e danno biologico), premetteva, quanto al danno alla professionalità che la forzosa inattività del prestatore integra sostanzialmente una fattispecie di demansionamento.

4.1. Dopo una serie di richiami a precedenti di legittimità, in ordine alla durata del demansionamento, andando sul punto parzialmente in diverso avviso rispetto al primo giudice, riteneva che il relativo danno poteva essere liquidato solo per il periodo dal 24 novembre 2014 al 31 luglio 2015 (otto mesi e sette giorni), ma da cui dovevano essere detratti n. 67 giorni di assenza dal lavoro, per un totale residuo di sei mesi complessivi di demansionamento.

4.2. Considerava, allora, che gli elementi sulla base dei quali commisurare il danno professionale subito dalla A.A. erano i seguenti: a) la durata del demansionamento, che aveva avuto una durata complessiva appunto di mesi sei; b) la gravità del demansionamento, tenuto conto della condizione di totale forzata inattività e della conseguente dispersione di un patrimonio professionale maturato dalla lavoratrice nella fase pregressa del rapporto; c) la evidente visibilità del demansionamento all'interno dell'azienda; d) la considerevole anzianità della dipendente (assunta nel 1984).

5. Quanto, poi, al danno biologico, rilevava che all'esito della consulenza tecnica d'ufficio espletata in prime cure era emerso che la A.A. è affetta da "Disturbo dell'adattamento con Ansia ed Umore depresso misti, Cronicizzato, di gravità clinica moderata, etiologicamente promosso da una situazione occupazionale con stress lavorativo", con danno biologico nella misura del 10%.

5.1. In proposito, la Corte non riteneva sussistenti validi motivi per discostarsi da tale valutazione, che appariva immune da evidenti errori, vizi logici o tecnici e fondata su esami clinici, diagnostici e strumentali esaurienti, e che era inoltre sorretta da adeguata e convincente motivazione. E tale giudizio era stato confermato dall'ausiliare anche all'esito delle osservazioni del consulente di parte appellante (le stesse su cui si fondava il gravame), per cui doveva ritenersi che le censure sollevate avverso l'operato dell'ausiliario ed avverso il contenuto della relazione peritale di prime cure non introducevano alcun nuovo elemento che non fosse stato già nella sfera di cognizione del consulente tecnico d'ufficio nel giudizio di primo grado.

5.2. La Corte d'appello, comunque, disattendeva motivatamente tali censure, ma passava a meglio specificare i criteri di liquidazione di tale voce di danno.

6. Avverso tale decisione, BPER Banca Spa ha proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi.

7. L'intimata ha resistito con controricorso.

8. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo la ricorrente "deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2727, 2728 e 2729 c.c. (norme relative all'onere della prova e al valore della prova presuntiva) con riferimento all'art. 1218 e 1223 c.c. (relativo al risarcimento del danno nelle sue componenti di danno emergente e lucro cessante), nonché con riferimento all'art. 2103 c.c. (cioè al concetto di danno risarcibile, laddove applicato a quello del bene pretesamente leso, nella fattispecie, la professionalità della sig.ra A.A.)". Secondo la ricorrente, il capo di sentenza dalla stessa individuato è, in primo luogo, censurabile in quanto contraddice insanabilmente il consolidato insegnamento di questa Corte, secondo cui, se è vero che il demansionamento ben può essere foriero di danni al bene immateriale della dignità professionale del lavoratore, è del pari vero che essi non sono in re ipsa e devono pur sempre essere dimostrati (seppure, eventualmente, a mezzo di presunzioni e/o massime di esperienza) da chi si assume danneggiato.

2. Con un secondo motivo "si censura lo stesso capo di sentenza", riprodotto nello sviluppo del precedente motivo, "ancora per violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2727, 2728 e 2729 c.c. per violazione dell'art. 115 cpc, nonché per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell'art. 360, 1 comma n. 5, cpc". In particolare, denuncia la ricorrente la mancata considerazione, ai fini del decidere, da parte della sentenza, della reimmissione presso l'Ufficio Credito Anomalo e Adriatica della A.A. già nel novembre 2015 in mansioni di suo pacifico gradimento, e confacenti con la sua professionalità; fatto dedotto dalla Banca in giudizio, non contestato (né specificamente, né genericamente) dalla A.A. e che, perciò, secondo la regola della disponibilità delle prove stabilita dall'art. 115 c.p.c. avrebbe dovuto essere adeguatamente considerato in sentenza.

3. Con un terzo motivo "si censura la sentenza nella parte in cui, dopo aver ritenuto la sussistenza di un danno professionale e di aver dedotto che tale accertamento si è basato su un ragionamento presuntivo ricollegato a vari indici, appunto presuntivi (cfr. estratto riportato al punto C.1. e qui da intendersi, per quanto di ragione, integralmente richiamato), passa a motivare specificamente la quantificazione di detto danno patrimoniale, asseritamente sussistente; con ciò concretandosi la qui denunciata violazione degli artt. 1226 cod. civ.; letto in correlazione agli artt. 2697, 2727, 2728, 2729 cod. civ.". Per la ricorrente, infatti, la mancata prova del danno preclude a monte la possibilità, anche solo teorica, della sua liquidazione in via equitativa. Inoltre, anche laddove si ritenesse, per assurdo, che il danno fosse provato nell'an, la relativa quantificazione ancorata a quegli stessi elementi (durata, gravità e visibilità della condotta, e anzianità di servizio) sarebbe comunque preclusa, stante il difetto, proprio in detti indici presuntivi, dei requisiti di precisione, gravità e concordanza, richiesti dalla legge.

4. Con un quarto motivo "denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 1223 c.c., 61 e 62 cpc, 424 e 441 c.p.c., nonché e, per quanto possa occorrere, dell'art. 2043 c.c., nella parte in cui la sentenza, pur richiamando la necessità che il danno venga medicalmente accertato, omette e non considera che, per la prova del danno biologico, non è solo necessario l'accertamento medicale, ma anche la ricognizione che tale danno medicalmente accertato sia la conseguenza immediata e diretta del fatto illecito, in Data virtù della operatività di uno specifico "nesso di causalità". Inoltre, si censura il medesimo capo di sentenza per violazione delle medesime norme, anche nella parte in cui, in acritico e non motivato recepimento della CTU, ha ritenuto provato il nesso di causalità tra asserito danno e condotta aziendale, ancorché in carenza di prova della parte onerata, sostituita, nell'assolvimento di tale ineludibile onere, dalle valutazioni esplorative della consulenza tecnica d'ufficio. Al contempo si deduce anche la violazione e la falsa applicazione degli artt. 115 cpc in correlazione con l'art. 2730 c.c. ".

5. Col quinto ed ultimo motivo "denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 1227 c.c., della sentenza nella parte in cui non ha valutato l'incidenza della condotta della A.A., che non ha seguito le terapie mediche prescrittele, sulla ritenuta cronicità della patologia. Si deduce altresì violazione e falsa applicazione dell'art. 115 cpc, nonché 61, 62, 424, 441 c.p.c.".

6. La controricorrente ha eccepito l'inammissibilità del ricorso per cassazione per la violazione dell'art. 366, comma primo, nn. 3) e 4) c.p.c., "ovvero per la violazione del dovere di chiarezza e sintesi espositiva, imposti dalla norma citata".

6.1. Tale eccezione è, tuttavia, superabile.

6.2. Secondo le Sezioni unite di questa Corte, il ricorso per cassazione deve essere redatto in conformità ai principi di chiarezza e sinteticità espositiva, occorrendo che il ricorrente selezioni i profili di fatto e di diritto della vicenda sub iudice posti a fondamento delle doglianze proposte, in modo da offrire al giudice di legittimità una concisa rappresentazione dell'intera vicenda giudiziaria e delle questioni giuridiche prospettate e non risolte o risolte in maniera non condivisa, per poi esporre le ragioni delle critiche nell'ambito della tipologia dei vizi elencata dall'art. 360 c.p.c.; tuttavia l'inosservanza di tali doveri può condurre ad una declaratoria di inammissibilità dell'impugnazione soltanto quando si risolva in una esposizione oscura o lacunosa dei fatti di causa o pregiudichi l'intellegibilità delle censure mosse alla sentenza gravata, così violando i requisiti di contenuto-forma stabiliti dai nn. 3 e 4 dell'art. 366 c.p.c. (in tal senso Cass., sez. un., 30.11.2021, n. 37552).

6.3. Ebbene, il ricorso in esame contiene indubbiamente una lunga parte dedicata alla "sommaria esposizione dei fatti di causa", peraltro prevalentemente dedicata al richiamo delle pregresse difese della stessa attuale ricorrente (e molto meno alle ragioni della controparte e delle decisioni di merito) (cfr. pagg. 1-16 dell'atto).

6.4. Tuttavia, nel ricorso, complessivamente considerato, non è assolutamente riscontrabile un'esposizione oscura o lacunosa dei fatti di causa o che pregiudichi l'intellegibilità delle censure mosse alla decisione di secondo grado, essendo anche chiaramente individuati capi e parti di motivazione censurati.

7. Piuttosto, come si vedrà subito, è inammissibile interamente il secondo motivo di ricorso, mentre negli altri motivi sono individuabili taluni profili d'inammissibilità.

8. Nel valutare, poi, le singole censure, occorre sottolineare che la stessa ricorrente ha premesso che essa "non censura in questa sede la parte di sentenza che ha accertato la sussistenza del demansionamento della A.A., pur continuando a ritenere infondata la doglianza" (cfr. inizio di pag. 16 del ricorso).

9. Come poco fa accennato, deve ritenersi inammissibile il secondo motivo di ricorso.

9.1. Esso fa riferimento esplicito al mezzo di cui all'art. 360, comma primo, n. 5), c.p.c., ma per il resto difetta di indicazioni espresse (come tutti i restanti motivi) a diverse ipotesi del primo comma dell'art. 360 c.p.c. cui far capo.

9.2. Ebbene, secondo le Sezioni unite di questa Corte, l'art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., riformulato dall'art. 54 D.L. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, ammette la denuncia innanzi alla S.C. di un vizio attinente all'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza provenga dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, con la necessaria conseguenza che è onere del ricorrente, ai sensi degli artt. 366, comma 1, n. 6, e 360, comma 2, n. 4, cod. proc. civ., indicare il fatto storico, il dato da cui esso risulti esistente, il come ed il quando esso abbia formato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività (così Cass., sez. un., 30.7.2021, n. 21973).

9.3. Nel secondo motivo, invece, il fatto della "reimmissione presso l'Ufficio Credito Anomalo e Adriatica della A.A. già nel novembre 2015 in mansioni di suo pacifico gradimento, e confacenti con la sua professionalità", è rappresentato dalla stessa ricorrente come "non contestato (né specificamente, né genericamente) dalla A.A.", e quindi come non controverso.

10. Quanto, poi, alla pur dedotta violazione dell'art. 115 c.p.c. come tale, la ricorrente assume che, ove la decisione avesse fatto buon governo della norma di cui all'art. 115 c.p.c., sarebbe necessariamente giunta ad un diverso apprezzamento delle circostanze emerse in processo.

10.1. Ma anche in questa diversa chiave la censura è inammissibile, perché, secondo un consolidato indirizzo di questa Corte, in tema di ricorso per cassazione, per dedurre la violazione dell'art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall'art. 116 c.p.c. (così, ex plurimis, di recente, Cass., sez. II, 19.5.2023, n. 13796).

11. Del resto, nello svolgimento ulteriore dello stesso motivo, la ricorrente sostiene che la Corte avrebbe dovuto valorizzare, "come impone la legge, un fatto noto, dedotto in giudizio e non contestato dalla controparte (vale a dire la reintegrazione della lavoratrice in mansioni a lei gradite dopo un breve periodo di assegnazione a mansioni di ritenuto formale demansionamento) per risalire al fatto non noto, vale a dire l'insussistenza di concreto pregiudizio per la A.A., solo in quanto tale quantificabile; tanto più ove visto in parallelo con la consolidata anzianità di servizio della A.A. e la correlata e ben resistente professionalità acquisita (appunto rimessa in gioco senza contestazioni dopo poco tempo)".

In definitiva, per la ricorrente, i giudici di secondo grado avrebbero dovuto seguire un ragionamento presuntivo diverso da quello dalla stessa attribuito ad essi giudici, e, cioè, fondato sulla ridetta reintegrazione della lavoratrice in mansioni a lei gradite, e con esito opposto a quello ritenuto dagli stessi giudici.

11.1. Da questo ulteriore punto di vista, tuttavia, occorre ricordare che, secondo altro consolidato indirizzo di legittimità, spetta al giudice di merito valutare l'opportunità di fare ricorso alle presunzioni semplici, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico, verificare la loro rispondenza ai requisiti di legge, e apprezzare in concreto l'efficacia sintomatica dei singoli fatti noti, non solo analiticamente ma anche nella loro convergenza globale, accertandone la pregnanza conclusiva, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità (così, tra le altre, Cass., sez. I, 26.4.2023, n. 10908).

11.2. Nota, d'altronde, il Collegio che la Corte territoriale aveva dato conto che l'allora appellante aveva, tra l'altro, dedotto che a fine novembre 2015 vi era stata ulteriore assegnazione della dipendente "all'Ufficio Credito Anomalo Adriatico" (cfr. alla fine di pag. 2), ma, in sede di valutazione del caso, ha considerato che: "la lavoratrice ha depositato il ricorso giurisdizionale di primo grado in data 31.07.2015, ed è pertanto a tale data che il primo giudice ha (correttamente) limitato gli effetti della pronuncia di condanna. Nel periodo successivo, la A.A. è rimasta nella lamentata situazione di asserito demansionamento non oltre il mese di novembre (data in cui è stata assegnata all' Ufficio Credito Anomalo Adriatica)" (così a pag. 4 della sua sentenza). Ed è in questa cornice deduttiva e cronologica che la stessa Corte, peraltro in parziale accoglimento del gravame della banca datrice di lavoro, ha ulteriormente delimitato la durata di effettivo demansionamento come gli elementi cui ancorare il danno professionale subito dalla lavoratrice (cfr. in extenso pag. 7 dell'impugnata sentenza).

12. Possono ora essere esaminati congiuntamente, per evidente connessione, il primo ed il terzo motivo di ricorso.

13. Essi sono in complesso infondati.

14. Secondo un consolidato orientamento di questa Corte, espresso più volte anche a Sezioni unite (cfr. Sez. un., 22.2.2010, n. 4063; id., n. 6572/2006), ed anche di recente confermato (cfr. Cass., sez. lav., 11.11.2022, n. 33427), in tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva - non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale - non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo, dovendo il danno non patrimoniale essere dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro dell'operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto), si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno.

14.1. Inoltre, è pressoché costante nei precedenti di legittimità, con precipuo riferimento al danno alla professionalità, il riferimento ad elementi presuntivi utilizzabili, quali la qualità e quantità dell'attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione (cfr., tra le altre, più di recente, Cass. n. 34073/2021); ma non si è mancato di includere tra tali elementi anche l'anzianità di servizio (cfr. Cass. n. 3822/2021; n. 4652/2009; n. 15955/2004).

15. Orbene, è anzitutto meramente assertivo l'assunto della ricorrente secondo cui la Corte di merito avrebbe dovuto riscontrare "la totale carenza di prospettazione da parte della A.A. anche di una sola circostanza concreta, atta a dimostrare la sussistenza di un danno risarcibile; con correlata conseguente preclusione rispetto alla necessaria ricognizione probatoria e finanche rispetto ad una eventuale valutazione presuntiva" (così all'inizio di pag. 23 del ricorso).

15.1. Nota in proposito il Collegio che praticamente tutte le norme delle quali la ricorrente assume la violazione (anche nel quarto e nel quinto motivo) attengono in varia chiave al terreno probatorio limitatamente all'esistenza dei danni (alla professionalità e biologico) ed alla loro quantificazione. Non riguardano, per contro, originarie lacune di allegazione dell'attrice sui medesimi punti; lacune che, oltre a non essere state ravvisate dal giudice di merito nell'ambito dei suoi poteri di interpretazione degli atti processuali, non risulta fossero state fatte valere in sede d'appello (secondo la Corte territoriale la pur articolata serie di motivi di gravame atteneva sempre a profili probatori: cfr. tra la pag. 2 e la pag. 3 dell'impugnata sentenza) e che, in ogni caso, in questa sede di legittimità, dovevano essere diversamente dedotte.

16. Ebbene, il vizio di fondo delle doglianze della ricorrente consiste nel non considerare che il presupposto da cui ha preso le mosse il ragionamento decisorio a riguardo della Corte di merito non è rappresentato solo dallo specifico percorso lavorativo della A.A. quanto meno dal maggio 2010.

Piuttosto, le parti di motivazione che la ricorrente censura in questa sede sono da intendere e valutare, come esplicitato dalla stessa Corte, "Sulla scorta" di tutte le precedenti "considerazioni", vale a dire, in base a tutto il capillare e motivato accertamento operato in ordine al demansionamento, alla sua precipua natura ed alla sua durata effettiva (cfr. pagg. 3-5 della stessa sentenza).

17. Secondo questa Corte, inoltre, in sede di legittimità è possibile censurare la violazione dell'articolo 2729 c.c. e dell'articolo 2727 c.c. solo allorché ricorra il c.d. vizio di sussunzione, ovvero quando il giudice di merito, dopo aver qualificato come gravi, precisi e concordanti gli indizi raccolti, li ritenga, però, inidonei a fornire la prova presuntiva oppure qualora, pur avendoli considerati non gravi, non precisi e non concordanti, li reputi, tuttavia, sufficienti a dimostrare il fatto controverso. In ogni caso non è ravvisabile la violazione dell'articolo 2727 c.c. se le doglianze sollevate tendono, in realtà, ad una rivisitazione del merito, censurando l'accertamento in fatto operato sulla base delle risultanze istruttorie (così Cass., sez. I, 28.4.2023, n. 11263). Infatti, si pone al di fuori dell'ambito del vizio di violazione di legge e si risolve in un diverso apprezzamento della quaestio facti la critica al ragionamento svolto dal giudice di merito che si concreta in un'attività diretta ad evidenziare soltanto che le circostanze fattuali in relazione alle quali il ragionamento presuntivo è stato enunciato dal giudice di merito avrebbero dovuto essere ricostruite in altro modo (sicché il giudice di merito è partito in definitiva da un presupposto fattuale erroneo nell'applicare il ragionamento presuntivo), o nella mera prospettazione di una inferenza probabilistica semplicemente diversa da quella che si dice applicata dal giudice di merito, senza spiegare e dimostrare perché quella da costui applicata abbia esorbitato dai paradigmi dell'articolo 2729, comma 1, c.c. (e ciò tanto se questa prospettazione sia basata sulle stesse circostanze fattuali sulle quali si è basato il giudice di merito, quanto se basata altresì su altre circostanze fattuali) (cfr. Cass., sez. III, 22.6.2022, n. 20177).

17.1. Orbene, circa l'elemento della durata del demansionamento, la ricorrente si limita ad assumere che trattasi "obiettivamente di un periodo brevissimo in senso assoluto, e nello specifico, ancor meno incidente, a fronte del giudizialmente accertato "percorso lavorativo di A.A."

In ordine alla gravità del demansionamento, assume che essa, "con ogni evidenza, la stessa non riguarda il danno, ma riguarda la condotta".

Per quanto riguarda la visibilità del demansionamento, per la ricorrente difetterebbe finanche il fatto noto, ossia, la c.d. visibilità del demansionamento, che qui sarebbe meramente asserita.

Per l'anzianità di servizio della lavoratrice, secondo la ricorrente, essa, "lungi dall'incidere in senso ampliativo sulla portata lesiva della condotta aziendale, portava semmai a ritenere l'esatto contrario" (cfr. in extenso pagg. 24-26 nel primo motivo e pagg. 29 nel terzo motivo).

17.2. È, pertanto, di tutta evidenza che in siffatte deduzioni della ricorrente la critica del ragionamento presuntivo attribuito alla Corte territoriale si traduce in un diverso apprezzamento della quaestio facti non consentita in questa sede di legittimità.

18. Rispetto, poi, alle ulteriori violazioni di norme di diritto, fatte valere dalla ricorrente nei suddetti motivi di ricorso (primo e terzo), osserva il Collegio che, non essendo dedotte anomalie motivazionali in modo ammissibile in questa sede (già s'è detto dell'integrale inammissibilità del secondo motivo), esse non colgono nel segno.

18.1. Invero, gli elementi di fatto noti, dei quali la Corte di merito si è avvalsa al fine di ritenere provato anzitutto il danno alla professionalità della lavoratrice, corrispondono a quelli che da tempo la giurisprudenza di legittimità ha indicato come utilizzabili allo scopo (cfr. i precedenti Par. 14 e Data 14.1. di questa motivazione).

18.2. Più nello specifico, in ordine alla durata del demansionamento, costantemente considerata in tali precedenti, questa Corte di legittimità, da un lato, ha specificato che la quantificazione del danno professionale può essere operata dal giudice di merito in via equitativa, tenendo conto dei soli giorni lavorativi in cui la professionalità è stata compromessa (così Cass., sez. lav., 9.9.2014, n. 18965), come ha fatto la Corte d'appello; dall'altro, ha riconosciuto la risarcibilità anche in presenza di lesione di breve durata (cfr. Cass., sez. lav., 3.5.2016, n. 8709).

E, se è vero che la stessa Corte d'appello ha parzialmente ridimensionato tale durata, è anche vero che nel contempo ha incensurabilmente evidenziato la gravità del demansionamento, parimenti indicata in sede di legittimità tra gli elementi valutabili nel ragionamento presuntivo in questione. In particolare, la Corte ha "tenuto conto della condizione di totale forzata inattività e della conseguente grave dispersione di un patrimonio professionale maturato dalla lavoratrice nella fase pregressa del rapporto", con ciò ponendo in risalto all'evidenza non la condotta datoriale in sé, bensì ciò che essa aveva prodotto nella lavoratrice come tale. Non si trattava, infatti, semplicemente di adibizione di quest'ultima a mansioni non confacenti alla professionalità acquisita, ma, secondo quanto accertato dalla Corte di merito, di una forma di demansionamento in cui il relativo danno era immanente nella condizione stessa di inerzia nella quale la dipendente era stata illegittimamente collocata, per cui tale inattività comporta la lesione di un bene immateriale per eccellenza qual è la dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo (cfr. Cass., sez. lav., 28.9.2020, n. 20466; v. in relazione ad altri casi di sostanziale o totale inattività: Cass. n. 17832/2015; n. 11430/2006). Peraltro, questa Corte ha ritenuto che l'onere del lavoratore di specifica allegazione dei fatti che il giudice può valutare al fine di ritenere integrata la prova presuntiva risulti necessariamente alleggerito laddove, a causa dell'inadempimento datoriale, il dipendente sia stato lasciato in condizione di totale inattività, senza attribuzione di mansioni e assegnazioni di compiti (cfr. nella motivazione Cass., sez. lav., 13.12.2019, n. 32982); come nel caso che ci occupa.

Diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente, rientrando tra gli elementi valutabili la conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro dell'operato demansionamento, la Corte d'appello, nel valorizzare (anche) "la evidente visibilità del demansionamento all'interno dell'azienda", ha fatto riferimento ad un'emergenza in precedenza ben appurata sul piano probatorio, avendo esposto che numerosi testi, tutti colleghi di lavoro dell'attrice, avevano "unanimemente confermato che la A.A., pur dotata di una propria postazione lavorativa, era stata in realtà costantemente lasciata in stato di forzata inoperosità" (cfr. pagg. 4 e 5 della sua sentenza).

Già s'è detto, infine, della piena valutabilità dell'anzianità di servizio della dipendente, che la Corte di merito ha giudicato "considerevole", specificando che ella era stata assunta nel 1984.

19. Nell'ambito del danno da demansionamento, la liquidazione equitativa è sindacabile in sede di legittimità, come violazione dell'art. 1226 c.c. e, nel contempo, come ipotesi di assenza di motivazione, di "motivazione apparente", di "manifesta ed irriducibile contraddittorietà", di "motivazione perplessa od incomprensibile", quando la valutazione del giudice di merito non abbia indicato, nemmeno sommariamente, i criteri seguiti per determinare l'entità del danno e gli elementi su cui ha basato la sua decisione in ordine al "quantum" (cfr. Cass. n. 9778/2020).

20. Ebbene, con precipuo riferimento alla violazione dell'art. 1226 c.c. dedotta nel terzo motivo, non essendo denunciate anomalie motivazionali a riguardo, nel caso di specie la Corte territoriale ha puntualmente esposto di aver tenuto conto di una serie ben individuata di criteri parametrici complessivamente adoperati nella quantificazione del danno professionale accertato, come risulta da quanto sin qui considerato.

Pertanto, incensurabilmente la Corte di merito ha concluso che il danno alla professionalità risarcibile andava "equitativamente liquidato (all'attualità) nella misura indicata nella sentenza impugnata, corrispondente a circa 1/3 della retribuzione globale di fatto percepita, ma solo per il periodo di effettivo demansionamento, pari a sei mensilità collocate nell'intervallo di tempo dal 24 novembre 2014 al 31 luglio 2015".

21. Parimenti infondati sono il quarto ed il quinto motivo, esaminabili congiuntamente attenendo entrambi al danno biologico ritenuto sussistente dalla Corte territoriale.

22. Nota preliminarmente il Collegio che tali censure sono concepite entrambe in termini di denunciata violazione e falsa applicazione di molteplici norme di diritto sostanziale e processuale, senza essere ricondotte esplicitamente a nessuno dei mezzi di cui all'art. 360, comma primo, c.p.c.

In realtà, come già risulta dai premessi riassunti di tali motivi e, meglio, dal loro svolgimento, essi, da un lato, denunciano determinate anomalie motivazionali dell'impugnata sentenza, e, dall'altro, integrano critiche all'accertamento probatorio in senso stretto operato dalla Corte di merito.

22.1. Ebbene, la Corte di merito non ha affatto omesso di considerare che debba sussistere uno specifico nesso causale tra l'inadempimento datoriale e il danno biologico medicalmente accertato. Ha, infatti, considerato che il complesso disturbo riscontrato dal C.T.U. era stato giudicato da quest'ultimo "etiologicamente", vale a dire, causalmente, "promosso da una situazione occupazionale con stress lavorativo", e che lo stesso ausiliare aveva evidenziato appunto che "lo stress lavorativo ha inciso comunque in maniera preponderante sul determinismo del quadro clinico", vale a dire, sempre sul piano causale.

22.2. Inoltre, il recepimento di tale parere tecnico, da parte della Corte di merito, non è affatto acritico e non motivato, come invece assume la ricorrente.

La Corte, infatti, ha diffusamente argomentato le ragioni della propria condivisione di quel parere e del perché le censure dell'allora appellante in proposito dovessero essere disattese (cfr. pagg. 8-10 della sua sentenza).

La ricorrente, peraltro, non considera che la stessa Corte non ha formato il suo convincimento a riguardo esclusivamente su quanto espresso dal C.T.U., ma ha ribadito che doveva "tenersi conto della gravità del demansionamento (considerata la evidente dispersione del patrimonio professionale della lavoratrice), della lesione della dignità e dell'immagine professionale subita dalla dipendente (privata delle mansioni svolte precedentemente) e del grave disagio lavorativo patito (a causa della dispersione del patrimonio professionale maturato nella fase pregressa del rapporto e della visibilità del demansionamento all'interno della Banca)".

E si tratta, come già visto, di profili fattuali incensurabilmente accertati dai giudici di secondo grado.

22.3. Con precipuo riferimento, infine, alla violazione dell'art. 1227 c.c., denunciata nel quinto motivo di ricorso, nella parte in cui la sentenza "non ha valutato l'incidenza della condotta della A.A., che non ha seguito le terapie mediche prescrittele, sulla ritenuta cronicità della patologia", la Corte distrettuale ha in realtà plausibilmente spiegato perché ha escluso la valutazione di tale profilo.

Ha evidenziato, in particolare, che, "secondo il perito, il rifiuto di sottoporsi ad adeguata psicoterapia è da ascriversi non all'assenza della patologia, ma alla "convinzione di dovercela far da sola per poter conservare la propria autostima" (pag. 13 CTU), atteso che, da un lato, "la persistenza delle condizioni stressanti è la principale causa della mancata risposta alla terapia", e che, dall'altro "l'incapacità di prendersi cura adeguatamente di sé, a anche attraverso l'aderenza alle prescrizioni farmacologiche, è spesso parte integrante del disturbo" (pag. 13 CTU)".

23. In definitiva, si è in presenza di accertamenti fattuali e valutazioni delle acquisizioni istruttorie, riservati al giudice di merito, che sfuggono quindi al sindacato di legittimità.

E, siccome nella decisione gravata non è assolutamente riscontrabile un'illegittima inversione dell'onere della prova in violazione dell'art. 2697 c.c. (violazione che invece la ricorrente denuncia in tutti i motivi del suo ricorso), anche il quarto ed il quinto motivo devono essere disattesi.

24. La ricorrente, pertanto, di nuovo soccombente, dev'essere condannata al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, ed è tenuta al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 3.500,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, IVA e C.P.A. come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri elementi identificativi della controricorrente (come sopra evidenziati), a norma dell'art. 52 del D.Lgs. n. 196 del 2003, come modificato dal D.Lgs. n. 101 del 2018.

Conclusione
Così deciso in Roma nell'adunanza camerale del 23 gennaio 2024.

Depositato in Cancelleria il 21 marzo 2024.

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