La prima sentenza della Cassazione sul licenziamento del disabile per superamento del periodo di comporto
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Oggetto: LICENZIAMENTO –
PERIODO DI COMPORTO – LAVORATORE DISABILE – DISCRIMINAZIONE INDIRETTA Ud.31/01/2023
PU
Numero registro generale 1950/2019 Numero sezionale 566/2023 Numero di raccolta generale 9095/2023 Data pubblicazione 31/03/2023
Dott. GUIDO RAIMONDI
Dott. MARGHERITA MARIA LEONE Dott. FABRIZIA GARRI
Dott. ANTONELLA PAGETTA
Dott. GUALTIERO MICHELINI
ha pronunciato la seguente
Presidente Consigliere Consigliere Consigliere Consigliere-Rel.
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 1950/2019 R.G. proposto da:
AMSA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA NOMENTANA, n. 257, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO LIMATOLA, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati CLAUDIO DAMOLI, ANDREA DELL'OMARINO, LORENZO CANTONE, ENZO PISA, OSVALDO CANTONE, GILDA PISA;
- ricorrente -
contro
CARRONE DAMIANO, domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati NYRANNE MOSHI, DANIELA PALMIERI, IVAN ASSAEL;
- controricorrente -
avverso la SENTENZA della CORTE D'APPELLO di MILANO n.
755/2018, pubblicata il 03/07/2018, R.G.N. 1153/2017;
udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 31/01/2023 dal Consigliere Dott. GUALTIERO MICHELINI;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MARIO FRESA, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’avvocato CLAUDIO DAMOLI; udito l’avvocato IVAN ASSAEL.
FATTI DI CAUSA
1. La Corte d'appello di Milano, con sentenza n. 755/2018, ha rigettato l'appello di AMSA s.p.a. e l'appello incidentale di Damiano Carrone, proposti avverso l'ordinanza n. 28175/2017 del Tribunale della stessa città con la quale il giudice di primo grado, in parziale accoglimento della domanda del lavoratore, aveva:
- dichiarato il carattere discriminatorio della condotta tenuta dalla
società nei confronti del medesimo;
- dichiarato la nullità del licenziamento intimatogli;
- condannato la società alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno, determinato nell’indennità mensile dalla data del licenziamento (29/6/2016) a quella di effettiva reintegrazione, oltre accessori, nonché al versamento dei contributi di legge per il medesimo periodo;
- condannato la società ad assegnare il ricorrente a mansioni
compatibili con la disabilità certificata e in ogni caso ad adottare ogni provvedimento appropriato per consentire al ricorrente di svolgere la propria prestazione lavorativa compatibilmente con le proprie condizioni di salute;
- rigettato la domanda di risarcimento del danno proposta dal
lavoratore.
2. Ha osservato la Corte di merito, in particolare, che:
- il ricorrente, dipendente con mansioni di spazzino stradale o
spazzino porta-sacchi, era stato licenziato per superamento del periodo di comporto;
- il Tribunale aveva ravvisato una discriminazione diretta correlata alle condizioni di disabile del lavoratore, riconosciuto portatore di handicap ai sensi dell'art. 3, comma 1, legge n. 104/1992, con capacità lavorativa ridotta del 75%, inidoneo a diverse mansioni sulla base degli accertamenti sanitari;
- detta discriminazione era consistita, per il Tribunale, nell’irrogazione del licenziamento (per assenza dal lavoro per 375 giorni nell'arco di 1095 giorni), dovendosi presumere (nonostante l’invio, non riscontrato dal lavoratore, di avviso dell’approssimarsi del comporto) che le assenze per malattia fossero riconducibili alla situazione di disabilità del lavoratore per l’assegnazione a mansioni incompatibili con il suo stato di salute;
- ad avviso della Corte d'appello, la pronuncia di primo grado era da confermare, “sia pure in forza, in parte, di differenti considerazioni”,
dovendo ritenersi nella fattispecie “sussistente, con carattere assorbente in relazione alle altre questioni proposte, una discriminazione di natura indiretta”, come da domanda proposta nel ricorso introduttivo, ritenuta assorbita dal Tribunale, espressamente riproposta dal lavoratore nella memoria di costituzione in appello
- detta discriminazione era consistita, alla luce del grave quadro patologico del lavoratore qualificabile come disabilità ai sensi della direttiva 2000/78/CE, nell’avere la società applicato l'art. 42 CCNL
Federambiente al lavoratore licenziato, trascurando di distinguere assenze per malattia ed assenze per patologie correlate alla disabilità, in contrasto con i principi espressi dalla sentenza della Corte di Giustizia UE con sentenza del 18/1/2018 in causa C-270/16.
3. Avverso la sentenza della Corte d’Appello di Milano la società AMSA s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione con 2 motivi, cui ha resistito Damiano Carrone con controricorso.
4. La causa è stata rimessa da udienza camerale a udienza pubblica;
le parti hanno depositato memorie e discusso oralmente la causa; il P.G. ha concluso per il rigetto del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.Con il primo motivo di ricorso, la società deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 2, comma 1, lett. b), del d. lgs. n. 216/2003 e dell'art. 42, lett. b), del CCNL dei Servizi ambientali - Federambiente del 17/6/2011, in relazione agli artt. 2110, commi 1 e 2, e 1362 c.c. per avere la Corte d'Appello di Milano ritenuto, in via solamente astratta, che “l'art. 42 del CCNL del settore, in quanto applicabile in modo identico alle persone disabili ed alle persone non disabili che sono state assenti dal lavoro, non introduce una disparità di trattamento direttamente basata sulla disabilità” e che “tale disposizione, pur se tende ad un legittimo contemperamento degli interessi delle parti del rapporto di lavoro, ecceda quanto necessario
per realizzare tale finalità, trascurando la condizione di disabile e prendendo in considerazione anche giorni di assenza dovuti a patologia collegata alla disabilità nel calcolo dei giorni di assenza per malattia”, senza avere considerato che tale norma, in concreto e complessivamente interpretata secondo i canoni di ermeneutica contrattuale, e dunque anche alla luce degli obblighi normativi, di legge e contrattuali, vigenti e rilevanti per la tutela della salute del lavoratore sul luogo di lavoro, soprattutto in tema di idoneità o non
idoneità al lavoro e conseguente adibizione a mansioni compatibili con le valutazioni a ciò correlate (cfr. anche art. 44 CCNL), non contiene alcuna previsione discriminatoria, nel rispetto del principio di trattamento del disabile con riferimento alle condizioni del suo licenziamento (violazione rilevante ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.).
2. Con il secondo motivo, deduce ancora violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 ss. c.c. in relazione all'art. 42, lett. b), comma 8 del
CCNL Servizi ambientali - Federambiente del 17/06/2011 e dall'art.
2, comma 1, lett. b) del D. Lgs. 216/2003, per avere ritenuto la Corte d'Appello di Milano che “nella fattispecie l'applicazione dell'art. 42 nei confronti di Carrone, trascurando di distinguere assenze per malattie ed assenze per patologie correlate alla disabilità, ha comportato una discriminazione indiretta nei confronti del lavoratore”, senza avere considerato che AMSA, con missiva del 12/01/2016, aveva altresì informato il sig. Carrone che egli, nel periodo 12/01/2013 - 11/01/2016, aveva accumulato assenze per malattia per un ammontare pari a 335 giorni calendariali, invitandolo altresì a “far pervenire ... osservazioni scritte ... entro 7 giorni dal ricevimento della presente” e che, ciononostante, alcuna osservazione scritta a riguardo fece mai pervenire il controricorrente ad AMSA (vizio rilevante ai sensi della censura svolta sub art. 360, comma 1, nn. 3 e 5 c.p.c.).
3.La controversia riguarda l’interpretazione e la portata dell’art. 42 CCNL Federambiente applicato al rapporto che, per quanto in questa
sede rileva, alla lett. B (“Determinazione del periodo di conservazione del posto di lavoro: comporto breve e comporto prolungato”) prevede: “1. Nei casi di interruzione del servizio dovuta a infermità per malattia o infortunio non sul lavoro debitamente certificata, il lavoratore, non in prova, ha diritto alla conservazione del posto per un periodo, definito comporto breve, di 365 giorni calendariali. Il suddetto periodo di conservazione del posto si intende riferito al cumulo delle assenze verificatesi nei 1.095 giorni
precedenti ogni nuovo ultimo episodio morboso. 2. Nell'ipotesi in cui il superamento del periodo di conservazione del posto di cui al comma 1 sia determinato da un unico evento morboso continuativo, debitamente certificato, comportante un'assenza ininterrotta, il lavoratore ha diritto alla conservazione del posto per un ulteriore periodo di 180 giorni calendariali. Di conseguenza il periodo complessivo di conservazione del posto, definito comporto prolungato, sarà di 545 giorni calendariali, sempre riferito al cumulo 5
delle assenze verificatesi nei 1.095 giorni precedenti ogni nuovoultimo episodio morboso (...) 8. Entro il mese di gennaio di ogni anno solare, l'azienda fornisce informazioni sulla situazione relativa alla conservazione del posto di lavoro, con riguardo ai lavoratori che hanno accumulato assenze per infermità pari o superiori a 250 giorni calendariali nei 1.095 giorni calendariali precedenti la data della comunicazione aziendale”.
4.L’applicazione della norma contrattuale collettiva in questione al licenziamento del lavoratore dipendente nel caso in esame, per superamento del periodo di comporto breve, è stata ritenuta dalla Corte di merito discriminatoria, per avere la società trascurato, nell’adottare la decisione di recesso, “di distinguere assenze per malattia ed assenze per patologie correlate alla disabilità”.
5.E’ stata, precisamente, ravvisata un’ipotesi di discriminazione indiretta, che ricorre, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. b), d.lgs. 216/2003 (normativa di attuazione della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale
per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro) “quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o nazionalità o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone “(testo vigente, di trasposizione dell’art. 2,
paragrafo 2, lett. b, della direttiva 2000/78/CE); ciò valorizzando, segnatamente, la sentenza CGUE del 18 gennaio 2018, che ha affermato che l’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), i), della direttiva 2000/78/CE deve essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale in base alla quale un datore di lavoro può licenziare un lavoratore in ragione di assenze intermittenti dal lavoro, sebbene giustificate, nella situazione in cui tali assenze sono dovute a malattie imputabili alla disabilità di cui soffre il lavoratore, 6
a meno che tale normativa, nel perseguire l’obiettivo legittimo di lottare contro l’assenteismo, non vada al di là di quanto necessario per raggiungere tale obiettivo, circostanza che spetta al giudice del rinvio valutare.
6. Preliminarmente, deve escludersi il passaggio in giudicato (sostenuto da parte controricorrente) del capo relativo alla discriminatorietà della condotta datoriale per mancata impugnazione della fattispecie di discriminazione diretta di cui all'ordinanza di primo grado. Infatti, il giudicato si forma sulle statuizioni del provvedimento e non sulla motivazione (nel caso in esame la Corte ha rigettato gli appelli avverso statuizioni di declaratoria del carattere discriminatorio della condotta della società nei confronti del lavoratore, di declaratoria della nullità del licenziamento, di ordine di reintegrazione, di condanna al risarcimento del danno e all’assegnazione a mansioni compatibili con le condizioni di salute, e non vi è stata alcuna riforma di tali statuizioni). Il giudicato interno non è configurabile, neppure in forma implicita, nella fattispecie cd. di assorbimento improprio,
dovuta alla decisione sulla base di una ragione più liquida, ossia quando dalla motivazione della sentenza risulti che l'evidenza di una soluzione abbia assorbito ogni altra valutazione (cfr. Cass. n. 41019/2021).
7.Tanto premesso, il primo motivo di ricorso non è fondato.
8. La tutela contro la discriminazione sulla base della disabilità si fonda, oltre che sulla della direttiva 2000/78/CE, attuata nell’ordinamento italiano, sulla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, che
include il motivo della disabilità nell’ambito dell’art. 21 (che sancisce il divieto generale di discriminazioni) e contiene anche una disposizione specifica (art. 26) che riconosce il diritto dei disabili di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità (azioni positive).
9. È inoltre fondata sulla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dall'Italia con legge n. 18/2009 (“Ratifica ed esecuzione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle
persone con disabilità, con Protocollo opzionale, fatta a New York il 13 dicembre 2006 e istituzione dell'Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità”). Detta Convenzione (CDPD) è stata altresì approvata dall’UE, nell’ambito delle proprie competenze, con “Decisione del Consiglio del 26 novembre 2009 relativa alla conclusione, da parte della Comunità europea, della convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità” (2010/48/CE), con la conseguenza che per la Corte di giustizia UE le stesse direttive normative antidiscriminatorie vanno interpretate alla luce della Convenzione.
10.Già con la sentenza 11 aprile 2013 in cause riunite C-335/11 e C- 337/11, HK Danmark, la CGUE ha chiarito che la nozione di «handicap» di cui alla direttiva 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretata nel senso che essa include una condizione patologica causata da una malattia
diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata, e che la natura delle misure che il datore di lavoro deve adottare non è determinante al fine di ritenere che lo stato di salute
di una persona sia riconducibile a tale nozione.
11.In tale pronuncia, la CGUE ha sottolineato che la direttiva 2000/78
deve essere oggetto, per quanto possibile, di un’interpretazione conforme alla CDPD (§§ 28-32); infatti, la nozione di «handicap» non è definita dalla direttiva 2000/78 stessa (cfr. sentenza 11 luglio 2006 in causa C-13/05, Chacón Navas). Peraltro, la Convenzione dell’ONU, ratificata dall’Unione europea con decisione del 26 novembre
concetto in evoluzione e che la disabilità è il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri».
12.In tal modo, l’articolo 1, secondo comma, di tale Convenzione dispone che sono persone con disabilità «coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di uguaglianza con gli altri». Inoltre, dall’articolo 1, secondo comma, della Convenzione dell’ONU risulta che le menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali debbano essere «durature». Né risulta che la direttiva 2000/78 miri a coprire unicamente gli handicap congeniti o derivanti da incidenti, escludendo quelli cagionati da una malattia; sarebbe, infatti, in contrasto con la finalità stessa della direttiva in parola, che è quella di realizzare la parità di trattamento, ammettere che essa possa applicarsi in funzione della
causa dell’handicap (§§ 36 -41).
13.In proposito, la sentenza HK ha osservato che un lavoratore disabile
è maggiormente esposto al rischio di vedersi applicare il periodo di preavviso ridotto (rilevante secondo la legislazione danese in materia) rispetto ad un lavoratore non disabile, perché, rispetto ad un lavoratore non disabile, un lavoratore disabile è esposto al rischio ulteriore di una malattia collegata al suo handicap. Pertanto, egli corre un rischio maggiore di accumulare giorni di assenza per
malattia, con la conseguenza che la normativa in discussione in tale causa è idonea a svantaggiare i lavoratori disabili e, dunque, a comportare una disparità di trattamento indirettamente basata sull’handicap ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78. Occorre perciò esaminare se tale disparità di trattamento sia oggettivamente giustificata da una finalità legittima, se i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e se essi non vadano al di là di quanto necessario per conseguire
l’obiettivo perseguito dal legislatore (§§ 76, 77).
14.La nozione di handicap/disabilità quale limitazione risultante da
menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, ed il principio per cui le direttive normative antidiscriminatorie UE vanno interpretate alla luce della Convenzione ONU, sono stati ribaditi nelle sentenze CGUE 4 luglio 2013, in causa C- 312/2011 Commissione c. Italia (§ 56-57) e 18 dicembre 2014, in causa C- 354/13, FOA; §§53- 56).
15. Con la sentenza 18 gennaio 2018, in causa C‐270/16, Carlos Enrique Ruiz Conejero, valorizzata nella sentenza qui impugnata, la CGUE ha, appunto, affermato che la definizione di discriminazione indiretta contenuta nella direttiva UE osta a una normativa nazionale che consenta il licenziamento di un lavoratore in ragione di assenze
intermittenti dal lavoro giustificate e dovute a malattie imputabili alla disabilità di cui soffre il lavoratore, salva verifica di quanto necessario per raggiungere l’obiettivo legittimo di lotta contro l’assenteismo.
16.Ha osservato che un trattamento sfavorevole basato sulla disabilità contrasta con la tutela prevista dalla direttiva 2000/78 unicamente nei limiti in cui costituisca una discriminazione ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, della stessa. Infatti, il lavoratore disabile che rientri nell’ambito di applicazione di tale direttiva deve essere tutelato
contro qualsiasi discriminazione rispetto a un lavoratore che non vi rientri (§ 36). Ha confermato, a tal proposito, la constatazione che un lavoratore disabile è, in linea di principio, maggiormente esposto al rischio di vedersi applicare la normativa spagnola in discussione in tale causa rispetto a un lavoratore non disabile, essendo, rispetto a un lavoratore non disabile, esposto al rischio ulteriore di assenze dovute a una malattia collegata alla sua disabilità, e quindi soggetto a un maggiore rischio di accumulare giorni di assenza per malattia e 10 rischio consegue l’idoneità di tale normativa a svantaggiare i lavoratori disabili e, quindi, a comportare una disparità di trattamento indirettamente basata sulla disabilità ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78.
17.La CGUE ha specificato, quanto alle problematiche di morbilità intermittente eccessiva ed ai costi connessi per le imprese, che gli Stati membri dispongono di un ampio margine di discrezionalità non solo nella scelta di perseguire uno scopo determinato in materia di politica sociale e di occupazione, ma altresì nella definizione delle misure atte a realizzarlo; e che la lotta all’assenteismo sul lavoro può essere riconosciuta come finalità legittima, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2), lettera b), i), della direttiva 2000/78, dal momento che costituisce una misura di politica occupazionale, senza tuttavia ignorare, nella valutazione della proporzionalità dei mezzi, il rischio cui sono soggette le persone disabili, le quali, in generale, incontrano maggiori difficoltà rispetto ai lavoratori non disabili a reinserirsi nel
mercato del lavoro e hanno esigenze specifiche connesse alla tutela
richiesta dalla loro condizione (§§ 39-51).
18.Alla luce della ricostruzione della giurisprudenza UE sopra
richiamata, in materia regolata da specifica direttiva trasposta nell’ordinamento interno, nonché rientrante nell’area di tutela dell'art. 21 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione europea, applicabile alla fattispecie (in base all'art. 51 della stessa Carta, essendo certo il collegamento con il diritto dell'Unione), la sentenza
impugnata si sottrae alle censure svolte con il primo motivo di
ricorso.
19. Se è vero che la nozione di handicap/disabilità non è coincidente con
lo stato di malattia, oggetto della regolazione contrattuale collettiva applicata al rapporto ai fini del computo del periodo di comporto rilevante ai sensi dell’art. 2110 c.c., ciò non significa che essa sia contrapposta a tale stato, che può esserne tanto causa quanto effetto, e le cui interazioni devono essere tenute in considerazione
nella gestione del rapporto di lavoro.
20.In questo senso, nel caso di specie, l’applicazione al lavoratore
dell’ordinario periodo di comporto ha condivisibilmente rappresentato, secondo la Corte di merito, discriminazione indiretta. Ciò perché, rispetto a un lavoratore non disabile, il lavoratore disabile è esposto al rischio ulteriore di assenze dovute a una malattia collegata alla sua disabilità, e quindi soggetto a un maggiore rischio di accumulare giorni di assenza per malattia e di raggiungere i limiti massimi di cui alla normativa pertinente.
21.Come si è visto, secondo la normativa dell’Unione europea come interpretata dalla Corte di Giustizia UE, è tale rischio a rendere idonea una normativa che fissa limiti massimi di malattia - identici per lavoratori disabili e non - in vista del recesso datoriale per (quale quella sul comporto breve) a svantaggiare i lavoratori disabili e, quindi, a comportare una disparità di trattamento indirettamente basata sulla disabilità.
22.L’evidenziato profilo di discriminatorietà prescinde dalle peculiarità e dai meccanismi previsti dalle normative danese e spagnola esaminati nelle citate sentenze della CGUE, e dalla fonte legislativa o contrattuale collettiva della regolazione del comporto o di meccanismi similari. Quel che rileva è l’approdo interpretativo, necessitato dalla normativa europea trasposta in quella domestica, secondo il quale il rischio aggiuntivo di essere assente dal lavoro per malattia di un lavoratore disabile deve essere tenuto in conto
nell’assetto dei rispettivi diritti e obblighi in materia, con la conseguenza che la sua obliterazione in concreto, mediante applicazione del periodo di comporto breve come per i lavoratori non disabili, costituisce condotta datoriale indirettamente discriminatoria e perciò vietata.
23.Questo non significa che un limite massimo in termini di giorni di assenza per malattia del lavoratore disabile non possa o non debba essere fissato. Una simile scelta discrezionale del legislatore o delle parti sociali per quanto di competenza, anche ai fini di combattere
fenomeni di assenteismo per eccessiva morbilità, può integrare, come ricordato nelle sentenze della CGUE citate, una finalità legittima di politica occupazionale, ed in tale senso oggettivamente giustificare determinati criteri o prassi in materia. Tuttavia, tale legittima finalità deve essere attuata con mezzi appropriati e necessari, e quindi proporzionati, mentre la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della disabilità, trasmuta il criterio apparentemente neutro del computo del periodo di comporto breve in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto in quanto in posizione di particolare svantaggio.
24.Non si pone, quindi, una questione di mancato bilanciamento con la finalità di contrasto dell’eccessiva morbilità dannosa per le imprese: nella misura in cui la previsione del comporto breve viene applicata ai lavoratori disabili e non, senza prendere in considerazione la maggiore vulnerabilità relativa dei lavoratori disabili ai fini del
superamento del periodo di tempo rilevante, la loro posizione di
svantaggio rimane tutelata in maniera recessiva.
25.La necessaria considerazione dell’interesse protetto dei lavoratori
disabili, in bilanciamento con legittima finalità di politica occupazionale, postula, invece, l’applicazione del principio dell’individuazione di soluzioni ragionevoli per assicurare il principio di parità di trattamento dei disabili, garantito dall’art. 5 della direttiva 2000/78/CE (ovvero degli accomodamenti ragionevoli di cui alla
Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, alla cui luce vanno interpretate le direttive normative antidiscriminatorie UE), secondo una prospettiva che non risulta percorsa in concreto nel caso in esame.
26.Il secondo motivo risulta parimenti non meritevole di accoglimento. 27. Esso involge in parte accertamenti di fatto, non sindacabili in sede di legittimità in quanto congruamente e logicamente motivati, in relazione agli elementi di prova, come raccolti dal Tribunale, la cui motivazione in parte qua è stata ripresa nella sentenza di secondo grado, ed anche presuntivi, relativi alla condizione di disabilità
conosciuta dal datore di lavoro dell’odierno controricorrente. 28.Quanto al profilo dell’onere della prova, la Corte di merito si è conformata all’orientamento di questa Corte, consolidato ed al quale si intende anche in questa sede dare continuità, secondo cui, in tema di licenziamento discriminatorio, in forza dell'attenuazione del regime probatorio ordinario introdotta per effetto del recepimento delle direttive n. 2000/78/CE, n. 2006/54/CE e n. 2000/43/CE, così come interpretate dalla CGUE, incombe sul lavoratore l'onere di allegare e dimostrare il fattore di rischio e il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe, deducendo al contempo una correlazione significativa tra questi elementi, mentre il datore di lavoro deve dedurre e provare circostanze inequivoche, idonee ad escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della misura litigiosa (Cass. n. 23338/2018, in tema
di recesso). Infatti, nei giudizi antidiscriminatori, i criteri di riparto dell'onere probatorio non seguono i canoni ordinari di cui all'art. 2729 c.c., bensì quelli speciali di cui all'art. 4 del d.lgs. 216 del 2003, che non stabiliscono tanto un'inversione dell'onere probatorio, quanto, piuttosto, un'agevolazione del regime probatorio in favore del ricorrente, prevedendo una "presunzione" di discriminazione indiretta per l'ipotesi in cui abbia difficoltà a dimostrare l'esistenza degli atti discriminatori; ne consegue che il lavoratore deve provare
il fattore di rischio, e cioè il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe e non portatori del fattore di rischio, ed il datore di lavoro le circostanze inequivoche, idonee a escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della condotta (Cass. n. 1/2020; cfr. anche, in tema di discriminazione indiretta nei confronti di persone con disabilità, Cass. n. 9870/2022).
29.La discriminazione opera in modo oggettivo ed è irrilevante l’intento soggettivo dell’autore. Non è dunque decisivo l’assunto di parte ricorrente di non essere stata messa a conoscenza del motivo delle assenze del lavoratore, perché i certificati medici delle assenze inoltrati al datore di lavoro non indicavano la specifica malattia a causa dell’assenza. Va, invero, confermato che la discriminazione – diversamente dal motivo illecito – opera obiettivamente, ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore, quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta, ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro (Cass. n. 6575/2016).
30.Il ricorso deve essere quindi complessivamente rigettato.
31.Le spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza. Ricorrono i presupposti processuali per il
raddoppio del contributo unificato, ove dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio, che liquida in € 5.500 per compensi, € 200 per esborsi, spese generali al 15%, accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento,
da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 31 gennaio 2023.
IL CONSIGLIERE ESTENSORE dott. Gualtiero MICHELINI
IL PRESIDENTE dott. Guido RAIMONDI