Commette reato di caporalato il datore di lavoro che assume e retribuisce part time, ma fa lavorare full time i dipendenti

Cassazione Penale Sezione 4 Sentenza n 24388 del 24/6/2022
Il reato di cui all'art. 603 bis cp si perfezione non solo con la stipula di un contratto di lavoro, ma anche con l'utilizzazione o l'impiego di fatto del lavoratore
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Cassazione Penale Sezione 4 Sentenza n 24388 del 24/6/2022

Ritenuto in fatto

1. Con ordinanza del 18/12/2020, il Tribunale di Catanzaro, decidendo sull’istanza di riesame presentata da G.S. ai sensi dell’art. 324 cod. proc. pen., ha confermato il decreto del 27/11/2020, con cui il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Lamezia Terme ha disposto il sequestro preventivo della somma di euro 186.512,30 a carico di G.S. e M.A., rispettivamente legale rappresentante ed amministratore di fatto della “R.M.D.G.S. s.n.c.”, gravemente indiziati del reato di sfruttamento del lavoro (art. 603-bis cod. pen.).

In parziale accoglimento della impugnazione, ha escluso il provvedimento di sequestro in relazione al delitto di autoriciclaggio (capo 3 della rubrica).

Il sequestro era disposto a fini di confisca ai sensi dell’art. 603-bis 2 cod. pen.

2. Avverso l’ordinanza del Tribunale del riesame ha proposto ricorso per cassazione G.S., datrice di lavoro delle dipendenti in danno delle quali era ipotizzato il reato di sfruttamento del lavoro (capi A, B, C, D, E, F, G, H, I della rubrica).

La difesa della ricorrente articola i seguenti motivi di ricorso. I) Violazione ed erronea applicazione degli artt. 2 e 603-bis cod. pen.

Si premette in ricorso che la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 603-bis cod. pen. è stata introdotta con d.l. 13 agosto 2011, convertito, con modificazioni, nella legge 14 settembre 2011, n. 148.

La collocazione della norma e l’inasprimento delle sanzioni ivi previste rivelano con chiarezza l’intenzione del legislatore di destinare la norma alla repressione di fatti nei quali si realizza una condizione di rilevante soggezione del lavoratore e di eclatante pregiudizio in suo danno.

Con la novella del 2016 è stata estesa anche al datore di lavoro la responsabilità per il reclutamento illecito. Precedentemente alla riforma, il soggetto attivo del reato era esclusivamente il soggetto che si interponeva tra il lavoratore ed il datore di lavoro, svolgendo attività d’intermediazione.

Con l’introduzione della previsione di cui all’art. 603-bis, comma 1, n. 2) cod. per, è stata estesa anche al datore di lavoro la responsabilità per il reclutamento illecito. In modo coerente con l’impostazione sistematica che ha collocato la previsione normativa nell’ambito dei delitti contro la persona, lo sfruttamento della manodopera deve avvenire tramite condotte contemplate nella norma, e nella ricorrenza dell’altro presupposto dell’approfittannento dello stato di bisogno.

Tutto ciò premesso in ordine alle generali condizioni di applicabilità della norma, occorre rilevare, lamenta la difesa, come i rapporti di lavoro di cui si tratta siano iniziati in epoca notevolmente antecedente alla introduzione dell’art. 603-bis cod. pen.

Il problema della individuazione della norma incriminatrice, nel caso di successive modifiche legislative, si legge nel ricorso, deve essere risolto alla stregua delle regole fondamentali del diritto intertemporale dettate dall’art. 2 cod. pen., che, ispirandosi al principio del favor rei, differenzia l’ipotesi dell’abolitio criminis (comma 2 del citato articolo) da quella della successione di leggi penali incriminatrici (comma 3).

Nel caso in esame non può parlarsi di una continuità normativa. Il soggetto attivo del reato è esso stesso elemento costitutivo del reato ed evento normativo che concorre a determinare il contenuto del precetto penale.

La modifica che incide sulla qualifica del soggetto attivo è suscettibile cli determinare un fenomeno di abrogatio criminis o di nuova fattispecie di reato e, poiché incide sui presupposti per la contestazione del reato, assume rilevanza ai fini dell’applicabilità della disciplina dettata dall’art. 2 cod. pen.

Essendo stato ampliato il novero dei soggetti giuridici che possono consumare le condotte incriminate, anch’esse completamente riviste da un punto di vista oggettivo, non può non applicarsi il principio di retroattività della legge più favorevole affermato dall’art. 2 cod.pen. II) Mancanza assoluta di motivazione.

Nell’ambito del provvedimento impugnato si mettono in rilievo comportamenti di costrizione. Tali comportamenti, tuttavia, sarebbero stati posti in essere da A.A., persona diversa dai due indagati. L’omessa estensione di responsabilità alla concorrente esclude la possibilità di ritenere integrata la fattispecie di reato a carico della ,G.. Se è stata l’A. ad avere costretto le dipendenti a sottostare a determiinate condizioni lavorative, non si comprendono le ragioni per cui del fatto siano chiamati a rispondere i due indagati. Nel caso che ci occupa: a) tutti i dipendenti indicano nell’A. la persona con cui concordarono le condizioni di lavoro presso la ditta riconducibile ai due indagati; b) agli indagati non è contestato di avere istigato alcuno a reclutare dipendenti per svolgere attività lavorative in condizioni vietate dalla legge; c) tutti i rapporti di lavoro di cui all’imputazione sono sorti in epoca notevolmente antecedente al 2016, pertanto, occorrerà verificare se, alla luce dell’art. 2 cod. pen., poteva applicarsi la nuova previsione normativa.

Il reato in contestazione è un reato istantaneo con effetti permanenti e si consuma al momento del reclutamento, dell’assunzione o dell’impiego. Poiché la norma più favorevole è quella precedente alla novella del 2016, nei casi in cui l’assunzione sia avvenuta prima di quella data, così come contestato a G.S. e M.A., il fatto non sussiste, poiché costoro non potevano essere soggetti attivi del reato. Per i capi A) e B) della rubrica è contestata la fattispecie di cui all’art. 603- bis, comma 1, n. 2 cod. pen.

In relazione a detti capi perché il reato sussista è necessario che si realizzi l’approfittamento dello stato di bisogno, approfittamento che deve essere concretamente accertato.

L’ordinanza impugnata trascurerebbe di valutare tale aspetto. III) Erronea applicazione dell’art. 321 cod. proc. pen. Il sequestro è stato disposto e mantenuto in sede di riesame ai sensi dell’art. 321, comma 2, cod. proc. pen., in vista della confisca per equivalente introdotta dall’art. 603-bis 2 cod. pen.

Limitatamente ai rapporti di lavoro sorti in epoca antecedente al 2016, il sequestro è stato disposto in violazione di legge.

La norma è stata inserita nell’ordinamento dall’art. 2 della legge n. 199 del 29 ottobre 2016. Il reato per cui si procede attiene a fatti commessi dal 2011, pertanto, il sequestro è stato disposto in violazione dell’art. 25, comma 2, Cost. e art. 7 CEDU.

3. Il P.G., con requisitoria scritta, ha concluso per il rigetto del ricorso.

Considerato in diritto

1. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

2. Il primo motivo di doglianza, riguardante l’inapplicabilità al caso in esame della fattispecie di reato di cui all’art. 603-bis cod. pen., come introdotta dalla legge 29 ottobre 2016, n. 199, in vigore dal 4 novembre 2016, è destituito di fondamento.

La difesa reitera una questione già adeguatamente vagliata dal Tribunale del riesame, sostenendo che il reato di cui all’art. 603-bis cod. pen. non possa configurarsi nel presente caso, in quanto i rapporti di lavoro tra la società di proprietà della G. e le dipendenti si erano instaurati in data antecedente alla introduzione della fattispecie incriminatrice.

Il Tribunale ha offerto sul punto congrua risposta, sottolineando che nella contestazione provvisoria elevata a carico dell’indagata, in relazione alle dipendenti assunte prima dell’introduzione della legge, è stato indicato quale momento iniziale di commissione del reato il 4/11/2016.

La difesa obietta che la fattispecie in esame, ascrivibile alla categoria dei reati istantanei con effetti permanenti, si perfezioni con l’assunzione del lavoratore, assunzione avvenuta, nel caso di specie, prima della introduzione della norma incriminatrice.

Il rilievo è erroneo. La norma, proprio al fine di realizzare un’ampia ed efficace tutela delle concrete situazioni che possano realizzarsi in tale ambito, prevede che il reato si perfezioni attraverso modalità alternative che riguardano non solo l’assunzione, ma anche l’utilizzazione o l’impiego di manodopera.

Non è esatto, pertanto, sostenere che, ai fini della individuazione del momento perfezionativo del reato, debba aversi riguardo al solo dato primigenio dell’insorgenza del rapporto di lavoro.

Si tratta, dunque, di un reato istantaneo con effetti permanenti il cui perfezionamento si realizza anche attraverso l’impiego o l’utilizzazione della manodopera in condizioni di sfruttamento e con approfittamento dello stato di bisogno.

La lesione del bene giuridico protetto dalla norma permane finché perdura la condizione di sfruttamento e approfittamento; pertanto, a far data dal 4 novembre 2016 il datore di lavoro che assuma, impieghi o utilizzi manodopera nella ricorrenza dei presupposti descritti nel comma 1, n. 2) della citata norma, deve rispondere del reato di sfruttamento di manodopera. Le ulteriori argomentazioni contenute nel primo motivo di ricorso sono del pari manifestamente infondate. Il richiamo all’art. 2, commi 2 e 3, cod. pen. è inconferente.

Nel presente caso non si pone alcuna questione di continuità normativa con il passato o di individuazione della norma più favorevole. La fattispecie incriminatrice di cui 603, comma 1, n. 2) cod. pen., rappresenta un “novum” nell’ordinamento, avendo il legislatore previsto un reato proprio del datore di lavoro, non contemplato in precedenza, avente connotazioni diverse da quello del reclutatore, con lo scopo di reprimere il fenomeno dello sfruttamento del lavoro, i cui indici di manifestazione sono elencati al terzo comma della norma.

Pertanto, erra la difesa nel sostenere che sia stata estesa al datore di lavoro la responsabilità per l’illecito reclutamento di manodopera. In conclusione, oltre a non rilevare il fatto che l’assunzione delle lavoratrici sia stata effettuata prima della introduzione della norma incriminatrice, è del tutto peregrino il richiamo al fenomeno della successione nel tempo di norme incriminatrici.

3. Del pari inammissibili sono le doglianze prospettate nel secondo motivo di ricorso. Occorre preliminarmente rammentare come, in tema di sequestri probatori e preventivi, il ricorso per Cassazione sia ammesso solo per violazione di legge. In tale nozione si devono ricomprendere sia gli “errores in iudicando” o “in procedendo”, sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice (cfr. Sez. U, n. 25932 del 29/05/2008, Ivanov, Rv. 239692 – 01; Sez. 2, n. 18951 del 14/03/2017, Rv. 269656 – 01).

Ebbene, tali vizi non sono individuabili nel discorso giustificativo posto a fondamento del decísum nell’ordinanza impugnata. Il fatto che non risulti indagata nella vicenda A.A. è del tutto irrilevante ai fini della correttezza delle contestazioni, non rappresentando tale mancanza un “vulnus” suscettibile di incidere sulla configurabilità del reato a carico dei datori di lavoro dei dipendenti.

Il Tribunale richiama in maniera dettagliata le circostanze dalle quali è stato desunto il fumus commissi delicti, soffermandosi sulle condizioni di sfruttamento dei lavoratori, corrispondenti agli indici richiamati nella norma incriminatrice.

A tal proposito ha posto in evidenza come tutti i lavoratori, dalla loro assunzione, fossero stati resi edotti della circostanza per cui avrebbero dovuto lavorare per un numero di ore superiore a quello previsto nella contrattazione collettiva; dal giugno 2018 i dipendenti subirono una modifica unilaterale del contratto di lavoro, passando da un contratto subordinato “fulltime” ad uno “part-time”.

Tuttavia, nonostante la modifica del contratto, i dipendenti continuarono a lavorare per un numero di ore corrispondenti al contratto a tempo pieno, percependo la retribuzione prevista dal C.C.N.L. relativa ai contratti part-time. Inoltre, ha aggiunto il Tribunale, si è accertato che i lavoratori non usufruivano delle ferie, della riduzione dell’orario di lavoro dei giorni di assenza e permesso previsti dalla contrattazione collettiva, lavorando sostanzialmente tutti i giorni, per un numero di ore pari a 48 ore settimanali in alta stagione.

Facendo falsamente figurare i dipendenti assunti part-time, gli indagati si procurarono un ingiusto profitto rappresentato dalle retribuzioni non corrisposte, quantificate in euro 186.512,30 Tali risultanze, ha precisato il Tribunale, sono state desunte dalle dichiarazioni dei lavoratori e dal raffronto tra il prospetto dei turni di lavoro e le buste paga percepite dai dipendenti.

Risulta dagli elementi acquisiti, evidenziati nella parte dedicata alla posizione dei singoli lavoratori, che i dipendenti erano sottoposti a turni di lavoro intensissimi, che non godevano delle ferie loro spettanti, che erano costretti a subire atteggiamenti vessatori d’ogni sorta.

La motivazione espressa risulta del tutto scevra da vizi logici, essendo il discorso giustificativo fondato su argomentazioni coerenti, che rivelano una ponderata valutazione del fumus commissi delictí.

Quanto al requisito dell’approfittannento dello stato di bisogno, il Tribunale, nell’analizzare le singole posizioni dei dipendenti, ha inteso condividere le argomentazioni offerte dal giudice della cautela nella ordinanza impositiva della misura, in cui si pone in evidenza come le dipendenti si siano viste costrette ad accettare le condizioni imposte per la necessità di mantenere un’occupazione, non esistendo, nel contesto in cui è maturata la vicenda, possibili reali alternative di lavoro. In proposito, secondo consolidato orientamento di questa Corte, ai fini dell’integrazione del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, lo stato di bisogno non va inteso come uno stato di necessità tale da annientare in modo assoluto qualunque libertà di scelta, bensì come una situazione di grave difficoltà, anche temporanea, tale da limitare la volontà della vittima e da indurla ad accettare condizioni particolarmente svantaggiose (cfr. Sez. 4, n. 24441 del 16/03/2021, Rv. 281405 – 01

4. Del pari manifestamente infondato è l’ultimo motivo di ricorso. La difesa sostiene, in termini generici, che l’importo stimato dalla G. di F. e sottoposto a sequestro sarebbe stato erroneamente calcolato, essendo stati valutati anche i periodi nei quali non era in vigore la norma.

L’assunto non trova riscontro in atti. A pagina 56 della ordinanza impositiva della misura è riportato uno specchietto riepilogativo dal quale si evince come la quantificazione delle somme indebitamente percepite dagli indagati attraverso lo sfruttamento del lavoro sia stata determinata prendendo come riferimento i periodi successivi al 4 novembre 2016.

5. Consegue alla declaratoria d’inammissibilità del ricorso la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., al versamento della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000).

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.

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