Illegittimo il licenziamento della dipendente straniera che usa il foulard mentre opera sulla macchina se non era un indumento a rischio di “impigliarsi e/o intralciare le lavorazioni”

Tribunale di Trento Sezione Lavoro Sentenza 24/5/2022 Giudice Dr. Giorgio Flaim
Non è insubordinata la lavoratrice straniera che rifiuta di togliersi il foulard a lavoro
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N. R.G. 363/2020

REPUBBLICA ITALIANA TRIBUNALE ORDINARIO DI TRENTO sezione lavoro

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale, in funzione di giudice del lavoro, nella persona fisica del magistrato Giorgio Flaim pronunzia la seguente

SENTENZA

nella causa per controversia in materia di lavoro promossa con ricorso in opposizione depositato in data 14.8.2020

da

XXX

rappresentata e difesa dall’avv. Barbara Burla pec barbara.burla@ordineavvocatipadova.it , dall’avv. Giovanni Burla pec giovanni.burla@ordineavvocativicenza.it , dall’avv. Tito Burla pec tito.burla@ordineavvocatipadova.it e dall’avv. Anna Chigliaro pec anna.chigliaro@ordineavvocatipadova.it

ricorrente in opposizione

rappresentata e difesa dall’avv. Sonia Guglielminetti pec sonia.guglielminetti@pectrentoavvocati.it

CONCLUSIONI DI PARTE OPPONENTE

convenuto opposto

contro

“In via principale:

accertare la legittimità del licenziamento disciplinare irrogato dalla società in data 15.10.2019 e rigettare tutte le domande di controparte in quanto infondate e comunque non provate.

In via subordinata:

nel denegato caso di accoglimento, anche parziale, delle domande della ricorrente, applicare l'art. 18 comma 5 dello Statuto dei lavoratori e non il comma 4, quantificando l'indennità risarcitoria nella misura minima ivi prevista”

CONCLUSIONI DI PARTE OPPOSTA

“In via principale e nel merito:

Accertare e dichiarare l’illegittimità/annullabilità del licenziamento senza preavviso

d.d. 15.10.2019 per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra

le condotte punibili con sanzione conservativa sulla base delle previsioni del CCNL e

del codice disciplinare applicabili;

conseguentemente, annullare il licenziamento e condannare la società convenuta alla

reintegra della ricorrente nonché al pagamento in suo favore di un’indennità

risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno

del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione ed al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali ex art. 18 L. 300/1970 co. 4.

In via ulteriormente subordinata:

accertare e dichiarare l’illegittimità del licenziamento d.d. 15.10.2019 in quanto non ricorrono gli estremi della giusta causa e/o giustificato motivo soggettivo; conseguentemente, dichiarare la risoluzione del rapporto di lavoro e condannare la società convenuta al pagamento in favore della ricorrente di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici ed un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto ex art. 18 L. 300/1970 co. 5, con ogni conseguenza di legge in punto indennità di preavviso, oltre ad interessi e rivalutazione monetaria.

Spese di lite rifuse”

l’oggetto del giudizio

MOTIVAZIONE

Il presente giudizio concerne l’opposizione ex art. 1 co.51 L. 28.6.2012, n. 92 che la società ricorrente XXX propone avverso l’ordinanza ex art. 1 co.49 L. 92/2012, pronunciata in data 23.7.2020 dal tribunale di Trento (nella persona di questo stesso giudice persona fisica) e avente il seguente tenore:

“ORDINANZA ex art. 1 co. 49 L. 28.6.2012, n. 92

Il tribunale ordinario di Trento, in funzione di giudice del lavoro, nella persona del magistrato dott. Giorgio Flaim,

esaminato il ricorso introduttivo proposto da ZZZ

richiamato il proprio decreto ex art. 83 co.7, lett. h) D.L. 17.3.2020, n. 18 conv. in L. 24.4.2020, n. 27 emesso in data 7.5.2020,

esaminata la memoria di costituzione depositata dalla società resistente XXX

esaminate le note di trattazione scritta ex art. art. 83 co.7, lett. h) D.L 18/2020 successivamente depositate da entrambe le parti,

OSSERVA

le domande proposte dalla ricorrente

La ricorrente ZZZ

premesso di aver lavorato, a far data dal 9.6.2003, alle dipendenze della società convenuta XXX, con inquadramento nella qualifica di operaia di livello D2 CCNL Grafici Industria –

impugna il licenziamento per giusta causa a lei intimato, con lettera del 15.10.2019 (doc. 12) in ragione degli addebiti disciplinari contestati con lettera del 5.9.2019 (doc. 4 fasc. ric.), avente il seguente tenore:

“contravvenzione alle regole di sicurezza e insubordinazione: come già avvenuto in data 3 settembre 2019 e in data 4 settembre 2019 anche in data odierna, mentre era addetta all carico di libri sul caricatore della Sitma, veniva invitata, nel rispetto delle procedure di sicurezza della legatoria che vietano di indossare indumenti e accessori che possono impigliarsi e o intralciare le lavorazioni (esempio maniche della tuta o polsini, braccialetti, catenine, sciarpe), dal suo responsabile, assistente di produzione e preposto, sig.        a togliere il foulard che aveva attorno al capo. Lei si rifiutava nuovamente di togliere il foulard. Veniva nuovamente invitata a rispettare la procedura di sicurezza e ad allontanarsi dalla linea dal suo responsabile, ma si

rifiutava di eseguire l'ʹordine, costringendo l'ʹazienda ad affiancarle altri lavoratori per evitare il protrarsi della situazione di pericolo con grave danno economico per la medesima”.

La ricorrente propone:

1)

domanda di accertamento della nullità del licenziamento de quo perché ritorsivo “in quanto motivato dal fatto che [la ricorrente] ha rivendicato il diritto di tenere, al pari degli altri colleghi, il capo coperto”.

chiede l’applicazione della tutela ex art. 18 co.1 e 2 St.Lav.;

2)

domanda di annullamento del licenziamento de quo per difetto della giusta causa addotta;

a sostegno:

A)

nega la sussistenza giuridica dei fatti addebitati stante l’assenza di rilievo disciplinare delle

condotte addebitate; chiede l’applicazione della tutela ex art. 18 co.4 St. Lav.;

B)

afferma la sussumibilità dei fatti contestati in fattispecie per cui il CCNL cit. (art. 46 lett. c) e l)) prevede l’irrogazione di sanzioni conservative, quali la multa sino a tre ore di normale retribuzione e la sospensione dal lavoro fino a tre giorni;

chiede l’applicazione della tutela ex art. 18 co.4 St. Lav.

3)

domanda di accertamento dell’illegittimità del licenziamento de quo per difetto della giusta causa addotta per sproporzione tra gli addebiti contestati e la sanzione espulsiva irrogata;

chiede l’applicazione della tutela ex art. 18 co.5 St. Lav.

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i motivi della decisione

1. in ordine alla domanda di accertamento della nullità del licenziamento perché ritorsivo

Ad avviso della Suprema Corte il licenziamento per ritorsione costituisce l'ingiusta e arbitraria reazione a un comportamento legittimo del lavoratore colpito o di altra persona a lui legata e pertanto accomunata nella reazione, con conseguente nullità ex art. 1345 cod.civ. del licenziamento, quando la finalità ritorsiva abbia costituito il motivo esclusivo e determinante dell’atto espulsivo (ex multis, anche di recente, Cass. 3.12.2019, n. 31527; Cass. 17.1.12019, n. 1195; Cass. 19.11.2018, n. 29764; Cass. 3.12.2015, n. 24648; Cass. 18.3.2011, n. 6282;).

Ne consegue che, allorquando il lavoratore alleghi che il licenziamento gli è stato intimato per un motivo illecito esclusivo e determinante ex art. 1345 cod.civ., il datore di lavoro non è esonerato dall'onere di provare, ai sensi dell'art. 5 L. 15.7.1966, n. 604, l'esistenza della giusta causa o del giustificato motivo del recesso; quindi l’indagine in ordine alla sussistenza nonché al carattere esclusivo e determinante del motivo ritorsivo dovrà essere condotta successivamente a quella concernente il presupposto giustificativo addotto dalla società datrice a fondamento del licenziamento intimato e solo nell’ipotesi di accertata insussistenza della stessa; diversamente, infatti, il motivo ritorsivo non sarebbe, per forza di cose, esclusivo e determinante e quindi non renderebbe nullo il negozio estintivo.

In questo senso si è pronunciata di recente la Suprema Corte (Cass. 23.9.2019, n. 23583; Cass. 4.4.2019, n. 9468), la quale ha statuito con cristallina chiarezza: Per accordare la tutela prevista per il licenziamento nullo [L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 1... [oggi anche d.lgs. 23/2015 art. 2], perché adottato per motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c., occorre che il provvedimento espulsivo sia stato determinato esclusivamente da esso, per cui la nullità deve essere esclusa se con lo stesso concorra un motivo lecito, come una giusta causa (art. 2119 c.c.) o un giustificato motivo (L. n. 604 del 1966, ex art. 3). Il motivo illecito può ritenersi esclusivo e determinante quando il licenziamento non sarebbe stato intimato se esso non ci fosse stato, e quindi deve  costituire l'unica effettiva ragione del recesso, indipendentemente dal motivo formalmente addotto. L'esclusività sta a significare che il motivo illecito può concorrere con un motivo lecito, ma solo nel senso che quest'ultimo sia stato formalmente addotto, ma non sussistente nel riscontro giudiziale. Il giudice, una volta riscontrato che il datore di lavoro non abbia assolto gli oneri su di lui gravanti e riguardanti la dimostrazione del giustificato motivo oggettivo, procede alla verifica delle allegazioni poste a fondamento della domanda del lavoratore di accertamento della nullità per motivo ritorsivo, il cui positivo riscontro giudiziale dà luogo all'applicazione della più ampia e massima tutela prevista dalla L. n. 300 del 1970, art. 18. comma 1 [oggi anche d.lgs. 23/2015, art.2]. Dunque, in ipotesi di domanda proposta dal lavoratore che deduca la nullità del licenziamento per il suo carattere ritorsivo, la verifica di fatti allegati dal lavoratore richiede il previo accertamento della insussistenza della causale posta a fondamento del recesso, che risulti solo allegata dal datore, ma non provata in giudizio, poiché la nullità per motivo illecito ex art. 1345 c.c. richiede che questo abbia carattere determinante e che il motivo addotto a sostegno del licenziamento sia solo formale e apparente...” In definitiva l’indagine in ordine alla sussistenza nonché al carattere esclusivo e determinante del motivo ritorsivo addotto dovrà essere condotta successivamente a quella concernente il presupposto giustificativo addotto dalla società datrice a fondamento del licenziamento intimato (qui giusta causa) e solo nell’ipotesi di accertata insussistenza dello stesso (diversamente, infatti, il motivo ritorsivo non sarebbe, per forza di cose, esclusivo e determinante e quindi non renderebbe nullo il negozio estintivo).

2. in ordine alla domanda di annullamento del licenziamento de quo per difetto della giusta causa addotta stante l’insussistenza giuridica del fatto sotto il profilo dell’assenza di rilievo disciplinare delle condotte addebitate e per sussumibilità delle stesse in fattispecie per cui il CCNL cit. prevede l’irrogazione di sanzioni conservative

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Alla luce del principio della ragione più liquida, desumibile dagli artt. 24 e 111 Cost., secondo cui la causa può essere decisa sulla base della questione ritenuta di più agevole soluzione, anche se logicamente subordinata, senza che sia necessario esaminare previamente le altre, imponendosi, a tutela di esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio, un approccio interpretativo che comporti la verifica delle soluzioni sul piano dell'impatto operativo piuttosto che su quello della coerenza logico sistematica e sostituisca il profilo dell'evidenza a quello dell'ordine delle questioni da trattare ai sensi dell'art. 276 cod.proc.civ. (Cass. S.U. 8.5.2014, n. 9936; Cass. 18.4.2019, n. 10839; Cass. 11.5.2018, n. 11458;) – si procede all’esame della domanda di annullamento del licenziamento de quo per difetto della giusta causa addotta stante la sussumibilità delle condotte addebitate in fattispecie per cui il CCNL cit. prevede l’irrogazione di sanzioni conservative.

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È vero che, contrariamente a quanto asserito dalla ricorrente, la recidiva è stata correttamente

contestata in quanto:

• ✓a differenza che nell’ambito penalistico, in relazione allo svolgimento del rapporto di lavoro

subordinato, per la configurabilità della recidiva ai fini disciplinari è sufficiente che il fatto posto in essere una seconda volta lo sia stato dopo che la precedente infrazione sia stata anche solo contestata, non essendo, invece, necessaria l’avvenuta irrogazione della sanzione (Cass. 8.8.2012, n. 14241; Cass. 20.10.2009, n. 22162); nel caso in esame al momento della contestazione della recidiva in data 5.9.2019 i due presunti illeciti precedenti, che ne costituiscono il fondamento, erano già stati contestati (il 3 e il 4.9.2019).

• ✓la condotta del datore di lavoro, che ravvisi la successione nel tempo di una pluralità di violazioni disciplinari e utilizzi il fatto addebitato successivamente per contestare la recidiva rispetto a quello contestato per primo, è illegittima solo qualora i fatti successivi siano già a conoscenza al momento della contestazione del primo addebito (Cass. 7.9.2000, n. 11817;);

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nel caso in esame, al momento della contestazione del 3.9.2019, la società datrice non poteva certo conoscere fatti che non erano ancora accaduti, quali quelli contestati il 4. e il 5.9.2019.

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Alla lavoratrice viene addebitata l’inosservanza della norma di prevenzione impartita dalla società datrice, secondo cui durante lo svolgimento delle prestazioni nel reparto legatoria “è vietato indossare indumenti e accessori che possano impigliarsi e/o intralciare le lavorazioni (es. maniche  della tuta o polsini, braccialetti, catenine, sciarpe)”

La violazione del precetto sarebbe stata consumata dalla ricorrente portando un “foulard...attorno al capo” (così in tutte e tre le contestazioni disciplinari del 3, del 4. e del 5.9.2019 sub doc. 2, 3 e 4 fasc.ric.), in tre distinte giornate immediatamente successive (3, 4 e 5.9.2019), durante lo svolgimento di tre diverse lavorazioni (il giorno 3: “mentre era addetta al carico della sovracoperta”; il giorno 4: “mentre era addetta al carico dei libri sul tappeto d’ingresso della cellophanatrice”; il giorno 5: “mentre era addetta al carico di libri sul caricatore della Sitma” – così sempre nelle suddette contestazioni disciplinari).

Orbene:

a)

nelle esemplificazioni contenute nella norma di prevenzione non è menzionato alcun oggetto assimilabile a un foulard, apparendo evidente la diversità rispetto ai due indumenti ivi indicati, ossia “maniche delle tuta o polsini”, che, evidentemente, sono a stretto contatto con le mani, e “sciarpe”, che, altrettanto evidentemente, si distaccano dal corpo in misura notevolmente maggiore di un normale “foulard portato attorno al capo”; è, quindi, di importanza decisiva stabilire se il foulard della ricorrente per le sue caratteristiche intrinseche o per le modalità con cui era indossato fosse riconducibile a un indumento che possa “impigliarsi e/o intralciare le lavorazioni”; b) dell’immagine del foulard e delle modalità di indosso da parte della ricorrente vi è prova documentale rappresentata dalla fotografia n.1 prodotta sub doc. 21 fasc. ric., la quale conferma che si trattava di un indumento effettivamente “portato attorno al capo”, il che rendeva improbabile un improvviso scivolamento (come nell’ipotesi del classico foulard solamente appoggiato al capo e discendente sulle spalle e davanti al petto) e, di conseguenza, il pericolo di un contatto tra il foulard indossato dalla ricorrente e il macchinario da lei utilizzato durante la lavorazione era ristretto all’ipotesi in cui la lavoratrice avesse portato la propria testa a una distanza assai ravvicinata a qualche ingranaggio; una situazione, in definitiva, non molto dissimile dal portare un turbante dei fedeli sikh, ossia dalla condotta che teneva un altro dipendente, tale Sing Battar, con il consenso o comunque con la tolleranza della società datrice, circostanza questa allegata dalla ricorrente e ammessa dalla società convenuta, la quale in proposito ha affermato che “il turbante dei sikh... notoriamente è sul sommo della testa ed è fissato molto saldamente”; tuttavia la prima circostanza è inesatta atteso che il turbante nella religione sikh è diretto a proteggere i capelli, tant’è vero che viene portato fino alla base del cuoio capelluto; la seconda appare piuttosto generica, specie se deve essere comparata a quella di un “foulard portato attorno al capo”; l’unica reale differenza è rappresentata dal fatto che il foulard, contrariamente al turbante sikh, può raggiungere il collo, il che, in relazione al pericolo di trascinamento appare piuttosto indifferente, dato che il collo si trova in posizione meno avanzata rispetto al capo e quindi è la testa (sia essa coperta dal foulard o dal turbante sikh) che per prima potrebbe venire a contatto con l’ingranaggio; c) le tre postazioni di lavoro, alle quali la ricorrente era addetta nei tre giorni in cui ha tenuto le condotte addebitate, sono assai diverse tra loro, come emerge dalla documentazione fotografica prodotta dalla ricorrente sub doc. 19, 20 e 21;

il giorno 3.9.2019 la ricorrente era “addetta al carico della sovracoperta”; si evince dalla fotografia

sub doc. 19, che effettivamente il macchinario presenta una serie di piccoli rulli assai vicini tra loro,

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anche se l’operatore, posizionandosi su una pedana, mantiene la testa (e anche il collo) a una notevole distanza dai suddetti rulli;

il giorno 4.9.2019 era “addetta al carico dei libri sul tappeto d’ingresso della cellophanatrice”; appare dalla fotografia sub doc. 20 fasc. ric. che il macchinario era rappresentato da un nastro trasportatore posto ad un’altezza assai modesta (evidentemente per rendere meno dispendiose le operazioni di carico), il che sia per il tipo di attrezzatura, sia per la sua posizione, esclude in radice il pericolo che il “foulard portato attorno al capo” dalla ricorrente potesse “impigliarsi e/o intralciare le lavorazioni”;

il giorno 5.9.2019 era “addetta al carico di libri sul caricatore della Sitma”; risulta dalle fotografie sub doc. 21 fasc. ric. che in quella postazione di lavoro non ci sono né rulli, né tappeti, come allegato dalla ricorrente nelle note depositate in data 22.6.2020, senza che parte convenuta abbia contestato la circostanza nelle proprie note depositate in data 26.6.2020, dove ha menzionato la presenza di “ganci di trascinamento”, senza darne una compiuta descrizione e indicarne la precisa collocazione, il che non consente di stabilire (con conseguente mancato assolvimento dell’onere probatorio a carico della società datrice in quanto circostanza parte integrante della giusta causa addotta) se esistesse effettivamente una concreta possibilità che il “foulard portato attorno al capo” si impigliasse o intralciasse la lavorazione; in proposito è però sintomatico che nella relativa contestazione, a differenza che nelle due precedenti (dove, nella prima era stato indicato il pericolo che il foulard “potesse impigliarsi nel tappeto di movimento della linea” e nella seconda quello che il foulard “potesse impigliarsi nei tappeti di movimento della linea”), non è stato specificato alcun pericolo.

In definitiva, non risulta che il “foulard portato attorno al capo” dalla ricorrente fosse un indumento univocamente esposto al rischio di “impigliarsi e/o intralciare le lavorazioni”, né in ragione delle sue caratteristiche intrinseche, né per le modalità con cui era indossato (il che rende la vicenda

concreta non sussumibile nella fattispecie astratta configurata dalla norma di prevenzione), e comunque non in misura maggiore di altro indumento (turbante sikh), che la società datrice tollerava venisse portato durante lo svolgimento delle prestazioni nel reparto legatoria; inoltre quel rischio non sussisteva neppure in concreto nel corso delle mansioni espletate dalla ricorrente quanto meno nei giorni 4 e 5 settembre 2020.

La società convenuta allega “la tragica vicenda avvenuta pochi mesi dopo nella YYY dove il foulard di una lavoratrice si era impigliato nel macchinario, rischiando di farla morire asfissiata”, ma la genericità del riferimento (non viene precisato di quale tipo di foulard si trattasse, come era indossato, a quale lavorazione era intenta la dipendente al momento del fatto) non consente di individuare apprezzabili similitudini tra le due vicende.

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Come emerge dalla lettera del 15.10.2019 (doc. 12 fasc. ric.), la società datrice ha intimato il

licenziamento “in considerazione della gravità dei fatti da Lei commessi e della loro recidiva”.

Il riferimento alla “gravità dei fatti” concerne, evidentemente, i fatti oggetto della contestazione correlata alla sanzione espulsiva irrogata, ossia la condotta tenuta dalla ricorrente il giorno 5.9.2020, quando ella si rifiutò di obbedire all’ordine, impartitole dal superiore gerarchico , di “togliere il foulard che teneva attorno al capo”, mentre ella era “addetta al carico dei libri sul caricatore della Sitma”.

Il riferimento alla “recidiva” riguarda, evidentemente, i fatti oggetto delle pregresse contestazioni formulate in data 3. e 4.9.2020.

In memoria di costituzione la società convenuta evidenzia che “il CCNL di riferimento... espressamente prevede il licenziamento senza preavviso, senza bisogno di alcuna recidiva: l'art. 46 prevede infatti il licenziamento senza preavviso per il dipendente “che abbia commesso insubordinazione grave verso i superiori” ”.

Occorre, quindi, in primo luogo, stabilire se la condotta, tenuta dalla ricorrente, integri la fattispecie, delineata dalla clausola collettiva, dell’ “insubordinazione grave verso i superiori”.

Ad avviso della Suprema Corte (ex multis, di recente, Cass. 13.9.2018, n. 22382; Cass. 19.4.2018, n. 9736; Cass. 27.3.2017, n. 7795;) l’insubordinazione consiste non già in un mero inadempimento, ma in una condotta contraddistinta da un costante e generale atteggiamento di sfida e di disprezzo nei confronti dei superiori gerarchici e della disciplina aziendale.

Nel caso in esame certamente la ricorrente si è rifiutata di obbedire all’ordine impartitole dal superiore gerarchico, di “togliere il foulard che teneva attorno al capo”, mentre ella era “addetta al carico dei libri sul caricatore della Sitma”.

Tuttavia non è ravvisabile un atteggiamento di sfida e disprezzo, la cui presenza è necessaria ai fini del perfezionamento di un’ipotesi di insubordinazione, tanto più se connotata da gravità.

Infatti, come si è già accertato, il “foulard portato attorno al capo” dalla ricorrente non era un indumento univocamente esposto al rischio di “impigliarsi e/o intralciare le lavorazioni”, né in ragione delle sue caratteristiche intrinseche, né per le modalità con cui era indossato; ciò esclude che la condotta fosse espressiva di una volontà di sfida e di disprezzo verso i superiori e la disciplina aziendale.

E’ vero che la ricorrente si è sottratta al potere direttivo esercitato dal superiore, il quale ha impartito un ordine, che, tuttavia, costituisce non già una pedissequa applicazione della norma di prevenzione vigente in azienda (perle ragioni già più volte evidenziate), ma il frutto di un’interpretazione, che, sebbene condivisa dal rappresentante della sicurezza per i lavoratori e dal responsabile delle risorse umane e certamente non irragionevole, poteva suscitare nella lavoratrice legittimamente delle perplessità, specie considerando che quell’ordine era imposto in occasione della svolgimento di lavorazioni molto diverse tra loro e una condotta assai simile a quella vietata alla ricorrente era consentita, quanto meno, a un altro lavoratore.

Infine la lavorazione, cui era intenta la ricorrente nella giornata del 5.9.2019, non comportava un

chiaro e concreto rischio che il “foulard portato attorno al capo” dalla lavoratrice si impigliasse e/o

intralciasse la lavorazione, tant’e vero che, come si è già evidenziato, nella contestazione

disciplinare la società datrice non è stata in grado di indicare alcun pericolo specifico e concreto, che fosse correlato alla lavorazione in corso, limitandosi a evocare la generica necessità di “evitare il protrarsi della situazione di pericolo”.

Occorre aggiungere che in riferimento alla lavorazione cui era stata addetta la ricorrente nella precedente giornata del 4.9. 2019 (“addetta al carico dei libri sul tappeto d’ingresso della cellophanatrice”), risulta evidente per tabulas (fotografia sub doc. 20 fasc. ric.) l’assenza del pericolo che il “foulard portato attorno al capo” dalla ricorrente potesse “impigliarsi e/o intralciare le lavorazioni”, atteso che il macchinario utilizzato consisteva i un semplice nastro trasportatore, tanto più ad un’altezza così modesta (evidentemente per rendere meno dispendiose le operazioni di carico), da escludere che la testa della ricorrente potesse entrare a contatto con il nastro.

Anche queste circostanze portano a escludere, pure in riferimento alla recidiva, che le condotte contestate alla ricorrente fossero espressive di una volontà di sfida e di disprezzo verso i superiori e la disciplina aziendale.

Certamente la condotta della ricorrente non è del tutto immune da censure. Infatti, a fronte dell’atteggiamento del datore, di certo opinabile (per le ragioni già esposte), ma non manifestamente irragionevole, avrebbe dovuto reagire diversamente, omettendo di percorrere la via dell’autotutela e instaurando, invece, più opportunamente con l’assistenza della propria organizzazione sindacale, un confronto con il datore di lavoro e, nel caso di esito infruttuoso, una controversia.

Quindi i comportamenti tenuti dalla ricorrente appaiono sussumibili nella fattispecie del “dipendente che non esegu(e) il lavoro secondo le istruzioni ricevute”, in relazione alla quale l’art. 46 CCNL cit. prevede l’irrogazione della multa o della sospensione.

In questo contesto neppure la recidiva avrebbe legittimato il licenziamento (nemmeno con preavviso), atteso che la medesima clausola collettiva consente l’irrogazione della sanzione

espulsiva (con preavviso) qualora “il dipendente sia recidivo nella medesima mancanza che abbia

già dato luogo a sospensione nei sei mesi precedenti oppure abbia commesso mancanze che abbiano già dato luogo a due sospensioni”, da cui si evince chiaramente la necessità che al momento di compiere il secondo (o il terzo) illecito disciplinare il lavoratore sia stato già sanzionato mediante una volta (o due) con la sospensione dal lavoro fino a tre giorni, il che nella vicenda in esame non è accaduto, essendo una sanzione di questo tipo stata irrogata dopo che tutti i fatti erano stati commessi.

In definitiva, in relazione al licenziamento intimato alla ricorrente, deve considerarsi accertata la mancanza della giusta causa e comunque del necessario presupposto giustificativo, atteso che gli addebiti disciplinari contestati alla ricorrente sono riconducibili a una fattispecie per cui la contrattazione collettiva prevede l’irrogazione di una sanzione conservativa.

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Ne consegue, stante l’evidente mancanza di esclusività richiesta dall’art. 1345 cod.civ., il rigetto della domanda, proposta dalla ricorrente, di accertamento della nullità del licenziamento de quo

per ritorsività.

Invece merita di essere accolta la domanda di annullamento del licenziamento de quo per sussumibilità delle condotte addebitate in una fattispecie per cui il CCNL cit. prevede l’irrogazione di sanzioni conservative.

Quindi trova applicazione la tutela ex art. 18 co.4 St.Lav. (come novellato dall’art. 1 co. 42 L. 28.6.2012, n. 92), per cui:

• ➢il licenziamento deve essere annullato;

• ➢la società datrice va condannata alla reintegrazione della ricorrente nel posto di lavoro

occupato al momento della cessazione del rapporto (unità produttiva di Lavis);

• ➢la società datrice va condannata al pagamento, in favore della ricorrente, di un'indennità risarcitoria commisurata alla retribuzione che sarebbe maturata dal 6.9.2019 (giorno di

decorrenza della sospensione cautelare) fino alla data odierna (somma agevolmente

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determinabile, di talché non appare necessario un accertamento tecnico contabile), con le maggiorazioni ex art.429 co.3 cod.proc.civ. (con gli interessi legali dovuti sul capitale via via rivalutato ogni fine anno secondo quanto stabilito in Cass. S.U. 29.1.2001, n.38);

➢la società datrice va condannata al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno della sospnsion4e cautelare fino a quello della effettiva reintegrazione, maggiorati degli interessi nella misura legale senza applicazione di sanzioni per omessa o ritardata contribuzione.

Le spese, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza principale. P .Q.M.

visto l’art. 1 co 49 L. 28.6.2012, n. 92

1. Rigetta la domanda, proposta dalla ricorrente ZZZ, di accertamento della

nullità per ritorsività del licenziamento a lei intimato, con lettera del 15.10.2019, dalla società

resistente XXX

2. Accerta che il licenziamento, di cui alla lettera del 15.10.2019, è stato intimato dalla società resistente XXX. per fatti che rientrano tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni del contratto collettivo applicabile, difettando così la giusta causa addotta quale presupposto

giustificativo del recesso.

3. Annulla il licenziamento intimato dalla società XXX a ZZZ

4. Condanna la società XXX a

reintegrare ZZZ nel posto di lavoro occupato al momento della cessazione

del rapporto (stabilimento di Lavis).

5. Condanna la società XXX a

corrispondere, in favore di ZZZ un'indennità risarcitoria commisurata alla

retribuzione che sarebbe maturata dal 6.9.2019 (giorno di decorrenza della sospensione cautelare) fino alla data odierna alla data odierna, con il maggior danno da svalutazione liquidato sulla base della variazione percentuale degli indici ISTAT, intervenuta dalle date di maturazione delle singole mensilità fino ad oggi, e con gli interessi legali computati sulle somme così rivalutate e decorrenti dagli stessi termini a quibus fino al saldo.

6. Condanna la società XXX. a versare i contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione, maggiorati degli interessi nella misura legale senza applicazione di sanzioni per omessa o ritardata contribuzione.

7. Condanna la società XXX alla rifusione, in favore di ZZZ delle spese di giudizio, liquidate nella somma complessiva di € 2.500,00, maggiorata del 15% per spese forfettarie ex art. 2 co.2 d.m. 10.3.2014, n. 55, oltre ad IVA e CNPA...”

2) l’esame dei motivi dell’opposizione

1)

La società opponente contesta la statuizione – secondo cui: “In definitiva non risulta che il “foulard portato attorno al capo” dalla ricorrente fosse un indumento univocamente esposto al rischio di “impigliarsi e/o intralciare le lavorazioni”, né in ragione delle sue caratteristiche intrinseche, né per le modalità con cui era indossato (il che rende la vicenda concreta non sussumibile nella fattispecie astratta configurata dalla norma di prevenzione” (pag.8) – censurando i motivi sui cui è stata fondata (“Egli giunge a tale conclusione sulla base di tre considerazioni, ciascuna delle quali è radicalmente errata”):

a)

La società opponente afferma:

“La prima considerazione del Giudice a quo è che “nelle esemplificazioni contenute nella norma di prevenzione non è menzionato alcun oggetto assimilabile ad un foulard”. Tuttavia, basta leggere la normativa di sicurezza prodotta dalla lavoratrice sub 14) per avvedersi che in essa è espressamente vietato ai lavoratori addetti al reparto legatoria di indossare “indumenti e accessori che possano impigliarsi e/o intralciare le lavorazioni (es. maniche della tuta o polsini, braccialetti, catenine, sciarpe)”.

La regola è, dunque, generale, e comprende, ovviamente, qualunque indumento od accessorio che possa impigliarsi, anche se non espressamente indicato.

Ed è evidente che un foulard non ha certo una minore idoneità ad impigliarsi di una catenina o di una sciarpa”.

In verità nell’ordinanza opposta il motivo de quo era così illustrato:

“Alla lavoratrice viene addebitata l’inosservanza della norma di prevenzione impartita dalla società datrice, secondo cui durante lo svolgimento delle prestazioni nel reparto legatoria “è vietato indossare indumenti e accessori che possano impigliarsi e/o intralciare le lavorazioni (es. maniche della tuta o polsini, braccialetti, catenine, sciarpe)”...

nelle esemplificazioni contenute nella norma di prevenzione non è menzionato alcun oggetto assimilabile a un foulard, apparendo evidente la diversità rispetto ai due indumenti ivi indicati, ossia “maniche delle tuta o polsini”, che, evidentemente, sono a stretto contatto con le mani, e “sciarpe”, che, altrettanto evidentemente, si distaccano dal corpo in misura notevolmente maggiore di un normale “foulard portato attorno al capo”; è, quindi, di importanza decisiva stabilire se il foulard della ricorrente per le sue caratteristiche intrinseche o per le modalità con cui era indossato fosse riconducibile a un indumento che possa “impigliarsi e/o intralciare le lavorazioni” ” Appare manifesto che la società opponente – a fronte di un motivato assunto di insussumibilità di un foulard a indumenti quali “maniche della tuta o polsini...sciarpe”

(la mancata considerazione delle “catenine” è dovuta alla sua superfluità, non trattandosi

neppure di un indumento) e di una precisazione secondo cui la riconducibilità del “foulard portato attorno al capo” a un indumento che potesse “impigliarsi e/o intralciare le lavorazioni” dipendeva dalle sue “caratteristiche intrinseche” e dalle “modalità con cui era indossato” – replica con un’affermazione (“Ed è evidente che un foulard non ha certo una minore idoneità ad impigliarsi di una catenina o di una sciarpa”) apodittica e, quindi, priva di persuasività.

b)

La società opponente afferma:

“La seconda considerazione del Giudice a quo è che, poiché dalla foto prodotta dalla ricorrente sub 21) il foulard risultava essere portato attorno al capo, “il pericolo di un contatto tra il foulard indossato dalla ricorrente e il macchinario da lei utilizzato durante la lavorazione era ristretto all'ipotesi in cui la lavoratrice avesse portato la propria testa a una distanza assai ravvicinata a qualche ingranaggio”. Secondo il Giudice, inoltre, il rischio era analogo a quello derivante dal turbante indossato dal dipendente visto che entrambi coprono la testa, ed anzi il turbante può raggiungere il collo, diversamente dal foulard.

Sul punto, va osservato che la foto prodotta dalla ricorrente sub 21 ritrae la lavoratrice da dietro, e non mostra i lembi del foulard liberi sul suo petto, lembi che, ovviamente, potevano venire in contatto con i macchinari a seguito di un semplice piegamento in avanti della lavoratrice, o di un suo abbassamento per qualunque motivo, ad esempio per raccogliere qualcosa.

Peraltro, che il foulard non fosse annodato sul dietro della testa, con la conseguenza che i lembi necessariamente ricadevano sul davanti, è comprovato proprio dalla foto prodotta da controparte; è inoltre espressamente confermato dalla dichiarazione

prodotta dalla società sub 5), nella quale la dott.ssa riferisce che “la sig.ra ZZZ indossava un foulard a fantasia scura annodato sotto il mento con i lembi ricadenti sul davanti”.

Non occorre certo precisare che i turbanti non hanno lembi sciolti sulle spalle o sul petto, e per questo non presentano gli stessi rischi di un foulard.”

Orbene, è vero che la foto sub doc. 21 fasc. ric. “ritrae la lavoratrice da dietro”, ma ciò non impedisce di constatare che il foulard aderiva alla testa e al collo della ricorrente; questa circostanza trova riscontro in quella riferita (doc. 5 fasc. conv) dalla responsabile del personale della società datrice , secondo cui la ricorrente portava il foulard “annodato sotto il mento”. Ne deriva che “i lembi ricadenti sul davanti”, di cui ha riferito la stessa, non potevano certo “raggiungere il petto”, come sostiene la difesa della società opponente, ma in contrasto con la semplice considerazione che solo un foulard non annodato attorno al mento può presentare i lembi che raggiungono il petto.

Inoltre, occorre evidenziare come siano rimaste immuni da censure le altre considerazioni svolte nell’ordinanza opposta circa l’assenza di nesso tra le modalità con cui la ricorrente indossava il foulard e la possibilità che tale indumento potesse “impigliarsi e/o intralciare le lavorazioni”:

“si trattava di un indumento effettivamente “portato attorno al capo”, il che rendeva improbabile un improvviso scivolamento (come nell’ipotesi del classico foulard solamente appoggiato al capo e discendente sulle spalle e davanti al petto) e, di conseguenza, il pericolo di un contatto tra il foulard indossato dalla ricorrente e il macchinario da lei utilizzato durante la lavorazione era ristretto all’ipotesi in cui la lavoratrice avesse portato la propria testa a una distanza assai ravvicinata a qualche ingranaggio”.

c)

La società opponente afferma:

“La terza considerazione del Giudice a quo è che per nessuna delle tre macchine alle quali era stata addetta la lavoratrice vi fosse il pericolo che il foulard potesse impigliarsi: per quanto riguarda le prime due macchine, secondo il Giudice la distanza dai rulli del lavoratore impediva in radice tale pericolo; per quanto riguarda la terza macchina, secondo il Giudice il datore di lavoro non avrebbe dato la prova che il foulard potesse impigliarsi nei ganci di trascinamento.

A questo proposito, va precisato che nelle note di trattazione scritta è stato evidenziato dalla società - con la sintesi resa necessaria dal limite di pagine imposto dal Giudice - che anche i tappeti mobili ad alta velocità della cellophanatrice utilizzata in data 4.9.2019 erano pericolosi, anche se meno dei rulli, e i ganci di trascinamento della macchina utilizzata in data 5.9.2019 lo erano ancora di più”

Il carattere palesemente generico di queste censure non consente di procedere alla riforma di quanto statuito nell’ordinanza opposta in modo circostanziato:

“Le tre postazioni di lavoro, alle quali la ricorrente era addetta nei tre giorni in cui ha tenuto le condotte addebitate, sono assai diverse tra loro, come emerge dalla documentazione fotografica prodotta dalla ricorrente sub doc. 19, 20 e 21;

il giorno 3.9.2019 la ricorrente era “addetta al carico della sovracoperta”; si evince dalla fotografia sub doc. 19, che effettivamente il macchinario presenta una serie di piccoli rulli assai vicini tra loro, anche se l’operatore, posizionandosi su una pedana, mantiene la testa (e anche il collo) a una notevole distanza dai suddetti rulli;

il giorno 4.9.2019 era “addetta al carico dei libri sul tappeto d’ingresso della cellophanatrice”; appare dalla fotografia sub doc. 20 fasc. ric. che il macchinario era rappresentato da un nastro trasportatore posto ad un’altezza assai modesta (evidentemente per rendere meno dispendiose le operazioni di carico), il che sia per il tipo di attrezzatura, sia per la sua posizione, esclude in radice

il pericolo che il “foulard portato attorno al capo” dalla ricorrente potesse “impigliarsi e/o intralciare le lavorazioni”;

il giorno 5.9.2019 era “addetta al carico di libri sul caricatore della Sitma”; risulta dalle fotografie sub doc. 21 fasc. ric. che in quella postazione di lavoro non ci sono né rulli, né tappeti, come allegato dalla ricorrente nelle note depositate in data 22.6.2020, senza che parte convenuta abbia contestato la circostanza nelle proprie note depositate in data 26.6.2020, dove ha menzionato la presenza di “ganci di trascinamento”, senza darne una compiuta descrizione e indicarne la precisa collocazione, il che non consente di stabilire (con conseguente mancato assolvimento dell’onere probatorio a carico della società datrice in quanto circostanza parte integrante della giusta causa addotta) se esistesse effettivamente una concreta possibilità che il “foulard portato attorno al capo” si impigliasse o intralciasse la lavorazione; in proposito è però sintomatico che nella relativa contestazione, a differenza che nelle due precedenti (dove, nella prima era stato indicato il pericolo che il foulard “potesse impigliarsi nel tappeto di movimento della linea” e nella seconda quello che il foulard “potesse impigliarsi nei tappeti di movimento della linea”), non è stato specificato alcun pericolo”

2)

La società opponente contesta l’ordinanza opposta anche dove statuisce: “...i comportamenti tenuti dalla ricorrente appaiono sussumibili nella fattispecie del “dipendente che non esegu(e) il lavoro secondo le istruzioni ricevute”, in relazione alla quale l’art. 46 CCNL cit. prevede l’irrogazione della multa o della sospensione. In questo contesto neppure la recidiva avrebbe legittimato il licenziamento (nemmeno con preavviso), atteso che la medesima clausola collettiva consente l’irrogazione della sanzione espulsiva (con preavviso) qualora “il dipendente sia recidivo nella medesima mancanza che abbia già dato luogo a sospensione nei sei mesi

precedenti oppure abbia commesso mancanze che abbiano già dato luogo a due sospensioni”, da

cui si evince chiaramente la necessità che al momento di compiere il secondo (o il terzo) illecito disciplinare il lavoratore sia stato già sanzionato mediante una volta (o due) con la sospensione dal lavoro fino a tre giorni, il che nella vicenda in esame non è accaduto, essendo una sanzione di questo tipo stata irrogata dopo che tutti i fatti erano stati commessi.

In definitiva, in relazione al licenziamento intimato alla ricorrente, deve considerarsi accertata la mancanza della giusta causa e comunque del necessario presupposto giustificativo, atteso che gli addebiti disciplinari contestati alla ricorrente sono riconducibili a una fattispecie per cui la contrattazione collettiva prevede l’irrogazione di una sanzione conservativa”.

Così deduce:

“... è comunque irragionevole ritenere che il fatto che la ricorrente” si sia ripetutamente sottratta al potere direttivo esercitato dal datore di lavoro non costituisse insubordinazione perché in tale rifiuto non sarebbe stato ravvisabile - a parere del Giudice - un atteggiamento di sfida e di disprezzo.

L'insubordinazione, infatti, consiste nella violazione da parte del lavoratore del dovere di obbedienza e quindi nel rifiuto di adempiere agli ordini dei superiori gerarchici, e non comporta necessariamente un atteggiamento di sfida e di disprezzo, atteggiamento che la giurisprudenza ritiene necessario unicamente per includere nel concetto di insubordinazione anche comportamenti che, singolarmente presi, non costituirebbero grave violazione di un ordine gerarchico, ma che nel loro insieme possono avere comunque rilievo proprio per la carica di sfida ad essi attribuibile (vedi, sul punto, proprio la sentenza Cass. 13.9.2018 n. 22382 citata dal Giudice a quo, il cui contenuto va nel senso esattamente opposto a quello indicato nell'ordinanza oggetto di opposizione).

Ad ogni modo, è nella fattispecie evidente che, come già sottolineato nei precedenti atti

difensivi, il comportamento della lavoratrice era intrinsecamente una sfida all'autorità  aziendale, ed evidenziava l'assoluto spregio delle regole di comportamento vigenti in azienda, ivi comprese le norme in materia di sicurezza, e degli ordini dei superiori gerarchici.”.

Si tratta di assunti non persuasivi; infatti non è corretto sostenere che “l’insubordinazione non comporta necessariamente un atteggiamento di sfida e di disprezzo” e ciò sarebbe statuito da Cass. 22382/2018 cit..

In proposito può essere sufficiente richiamare la massima ufficiale del CED: “In tema di licenziamento disciplinare, l'insubordinazione può risultare da una somma di diverse condotte, e non necessariamente da un singolo episodio, tali da integrare una giusta causa di licenziamento, poiché il comportamento reiteratamente inadempiente posto in essere dal lavoratore - come l'uscita dal lavoro in anticipo e la mancata osservanza delle disposizioni datoriali e delle prerogative gerarchiche - è contraddistinto da un costante e generale atteggiamento di sfida e di disprezzo nei confronti dei vari superiori gerarchici e della disciplina aziendale tale da far venir meno il permanere dell'indispensabile elemento fiduciario”; inoltre è opportuno evidenziare che nella vicenda ivi esaminata l’insubordinazione è stata ritenuta sussistente in presenza di una pluralità di condotte. Ancora più illuminante appare Cass. 30.3.2012, n. 5115, la quale ha individuato la presenza di un atteggiamento di sfida e disprezzo il criterio discretivo tra condotte inadempienti sanzionabili con il licenziamento e quelle punibili con sanzioni conservative: “

In definitiva, nel corretto giudizio svolto dalla Corte di merito, i diversi

episodi di insubordinazione sanzionati il 28/5/03, il 13/8/03, il 16/9/03, il 5/5/04, inizialmente fatti oggetto di misure di tipo conservativo, finirono alla distanza per denotare un comportamento reiteratamente inadempiente posto in essere dalla lavoratrice, che rivestiva anche il ruolo di rappresentante sindacale aziendale, alla luce delle ultime infrazioni del (OMISSIS) che condussero al licenziamento e che riguardarono le contestate ipotesi dell'abbandono per un'ora e mezzo del posto di lavoro, l'uscita dal lavoro in anticipo e l'uscita a fine turno senza provvedere alla chiusura della porta della cucina. Tali comportamenti sono stati ritenuti dal giudice

d'appello come contraddistinti da un costante e generale atteggiamento disfidae di disprezzo nei confronti dei vari superiori gerarchici e della disciplina aziendale, così come emerso anche dalla lettura delle stesse giustificazioni rese dalla ricorrente, tale da far venir meno il permanere dell'indispensabile elemento fiduciario... Quanto alla lamentata violazione del principio della proporzionalità, occorre rilevare l'infondatezza della relativa prospettazione, atteso che tale principio va considerato con riferimento al rapporto che deve sussistere tra la reale entità delle contestazioni validamente eseguite, valutate nella fattispecie nel loro insieme ai fini della verifica della permanenza del vincolo fiduciario, e la sanzione in concreto inflitta. Ebbene, sul punto la decisione del giudice d'appello risulta adeguatamente motivata laddove quest'ultimo ha tenuto conto dei ripetuti atteggiamenti di sfida e di insubordinazione posti in essere dalla lavoratrice, comportamenti, questi, rispetto ai quali si erano rivelate inadeguate le sanzioni

conservative inizialmente adottate dalla datrice di lavoro nella vana speranza di

ristabilire il corretto svolgimento del rapporto stesso

”.

La società opponente aggiunge: “Non si può, infatti, trascurare il fatto che l'ordine era

stato a lei impartito sia dal responsabile di reparto che dalla responsabile delle risorse umane, e che anche il rappresentante per la sicurezza dei lavoratori e l'addetto al servizio di prevenzione e protezione avevano cercato di farle intendere ragione. La lavoratrice ha sostanzialmente disatteso gli ordini e le indicazioni di tutti i vertici aziendali presenti e ha rifiutato con sprezzo le indicazioni del personale addetto alla sicurezza”.

Tuttavia, così argomentando omette di criticare con sufficiente precisione la motivazione svolta sul punto nell’ordinanza opposta:

“Tuttavia non è ravvisabile un atteggiamento di sfida e disprezzo, la cui presenza è necessaria ai fini del perfezionamento di un’ipotesi di insubordinazione, tanto più se connotata da gravità.

Infatti, come si è già accertato, il “foulard portato attorno al capo” dalla ricorrente non era un indumento univocamente esposto al rischio di “impigliarsi e/o intralciare le lavorazioni”, né in ragione delle sue caratteristiche intrinseche, né per le modalità con cui era indossato; ciò esclude che la condotta fosse espressiva di una volontà di sfida e di disprezzo verso i superiori e la disciplina aziendale.

E’ vero che la ricorrente si è sottratta al potere direttivo esercitato dal superiore, il quale ha impartito un ordine, che, tuttavia, costituisce non già una pedissequa applicazione della norma di prevenzione vigente in azienda (perle ragioni già più volte evidenziate), ma il frutto di un’interpretazione, che, sebbene condivisa dal rappresentante della sicurezza per i lavoratori e dal responsabile delle risorse umane e certamente non irragionevole, poteva suscitare nella lavoratrice legittimamente delle perplessità, specie considerando che quell’ordine era imposto in occasione della svolgimento di lavorazioni molto diverse tra loro e una condotta assai simile a quella vietata alla ricorrente era consentita, quanto meno, a un altro lavoratore.

Infine la lavorazione, cui era intenta la ricorrente nella giornata del 5.9.2019, non comportava un chiaro e concreto rischio che il “foulard portato attorno al capo” dalla lavoratrice si impigliasse e/o intralciasse la lavorazione, tant’e vero che, come si è già evidenziato, nella contestazione disciplinare la società datrice non è stata in grado di indicare alcun pericolo specifico e concreto, che fosse correlato alla lavorazione in corso, limitandosi a evocare la generica necessità di “evitare il protrarsi della situazione di pericolo”.

Occorre aggiungere che in riferimento alla lavorazione cui era stata addetta la ricorrente nella

precedente giornata del 4.9. 2019 (“addetta al carico dei libri sul tappeto d’ingresso della

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cellophanatrice”), risulta evidente per tabulas (fotografia sub doc. 20 fasc. ric.) l’assenza del pericolo che il “foulard portato attorno al capo” dalla ricorrente potesse “impigliarsi e/o intralciare le lavorazioni”, atteso che il macchinario utilizzato consisteva i un semplice nastro trasportatore, tanto più ad un’altezza così modesta (evidentemente per rendere meno dispendiose le operazioni di carico), da escludere che la testa della ricorrente potesse entrare a contatto con il nastro.

Anche queste circostanze portano a escludere, pure in riferimento alla recidiva, che le condotte contestate alla ricorrente fossero espressive di una volontà di sfida e di disprezzo verso i superiori e la disciplina aziendale”.

Infine, parte opponente ricorda che Cass. 22382/2018 cit. ha evidenziato: “In termini generali va osservato, con riferimento alla disubbidienza agli ordini ed alle direttive, che il lavoratore può chiedere giudizialmente l’accertamento della legittimità di un provvedimento datoriale che ritenga illegittimo, ma non è autorizzato a rifiutarsi aprioristicamente, e senza un eventuale avallo giudiziario (conseguibile anche in via d’urgenza), di eseguire la prestazione lavorativa richiesta, in quanto egli è tenuto ad osservare le disposizioni impartite dall’imprenditore, ex artt. 2086 e 2104 cod. civ., e può legittimamente invocare l’eccezione di inadempimento, ex art. 1460 cod. civ., solo nel caso in cui l’inadempimento del datore di lavoro sia totale (cfr., tra le più recenti, Cass. 19 gennaio 2016, n. 831 e Cass. 26 settembre 2016, n. 18866)”.

E’, però, agevole replicare che nell’ordinanza opposta non sui è affatto statuito che la condotta si stata lecita; infatti, come già evidenziato, si è ritenuto integrasse un illecito disciplinare, sebbene punibile soltanto con una sanzione conservativa: “Certamente la condotta della ricorrente non è del tutto immune da censure. Infatti, a fronte dell’atteggiamento del datore, di certo opinabile (per le ragioni già esposte), ma non manifestamente irragionevole, avrebbe dovuto reagire diversamente, omettendo di percorrere la via dell’autotutela e instaurando,  invece, più opportunamente con l’assistenza della propria organizzazione sindacale, un confronto con il datore di lavoro e, nel caso di esito infruttuoso, una controversia.

Quindi i comportamenti tenuti dalla ricorrente appaiono sussumibili nella fattispecie del “dipendente che non esegu(e) il lavoro secondo le istruzioni ricevute”, in relazione alla quale l’art. 46 CCNL cit. prevede l’irrogazione della multa o della sospensione”.

---

In definitiva l’opposizione ex art. 1 co.51 L. 92/2012 proposta dalla società XXX nei confronti di ZZZ deve essere integralmente rigettata.

Le spese non possono che seguire la soccombenza.

P.Q.M.

Il tribunale ordinario di Trento - sezione per le controversie di lavoro, in persona del giudice istruttore, in funzione di giudice unico, dott. Giorgio Flaim, definitivamente pronunciando, ogni altra domanda ed eccezione rigettata, così decide:

1. Rigetta l’opposizione ex art. 1 co.51 L. 28.6.2012, n.92 proposta dalla società

XXX  nei  confronti di ZZZ

2. Condanna la società ricorrente alla rifusione, in favore della convenuta, delle spese di

giudizio, che liquida nella somma complessiva di € 5.000,00, maggiorata del 15% per

spese forfettarie ex art. 2 co.2 d.m. 10.3.2014, n. 55, oltre ad IVA e CNPA. Trento, 24 maggio 2022

IL GIUDICE dott. Giorgio Flaim

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